Un giorno tutto questo dolore ti sarà inutile

L’anno del pensiero magico di Joan Didion

«Sì, l’uomo è mortale, ma questo sarebbe un male da poco.
Il peggio è che talvolta egli è mortale all’improvviso; ecco il punto!»
Michail A. Bulgakov
Il maestro e Margherita

La sera del 30 dicembre del 2003 John Gregory Dunne, sposato da quarant’anni con Joan Didion, muore improvvisamente per un attacco cardiaco.

La perdita di una persona cara può avvenire in modi molto diversi: una malattia fulminante, un’altra che distrugge progressivamente il fisico o la mente, un incidente, un suicidio, e si potrebbe continuare. Senza voler generalizzare, mi è capitato più volte di sentire chi è costretto a fare i conti con una brusca scomparsa lamentare di non essersi potuto “abituare” al distacco, opportunità che gli sembra invece assicurata da una lunga malattia. All’opposto, chi debba confrontarsi con lo strazio quotidiano di un caro ridotto progressivamente a un dato puramente biologico, fatto di funzioni e bisogni primari, prima o poi pensa che una fine subitanea sarebbe stata preferibile.

In realtà in entrambi i casi, a mio avviso, si parte da un presupposto errato, legato proprio a quell’avverbio: “improvvisamente”. Me ne resi conto quando lessi la bellissima frase in esergo che, al tempo, fu una vera e propria folgorazione, anche se, a ben vedere, contiene una imprecisione:  l’uomo è “sempre” mortale all’improvviso, non solo “talvolta”. Che ci si arrivi dopo una lunga malattia o con un infarto, infatti, il passaggio dalla vita alla morte è istantaneo: c’è un “prima” in cui si è ancora vivi e un “dopo” in cui non lo si è più, e anche la vita di chi resta è divisa da quell’attimo in un “prima” e un “dopo”.

Cosa c’entra tutto questo con il libro della Didion? C’entra, perché quel che ci racconta è proprio come ha affrontato quel “dopo”.

La sua bellezza, oltre che nella scrittura secca, dettata da un’urgenza esorcizzante e non certo da un intento autoconsolatorio, sta proprio nella sua frammentarietà, adeguata corrispondenza di un mondo che il dolore manda in frantumi, nella descrizione della gamma di strategie, più o meno fallimentari, con cui tutti noi cerchiamo di proteggerci, strategie che rientrano in quel “pensiero magico” che dà il titolo al libro. Come, ad esempio, sforzarci di escludere dal nostro orizzonte cosciente quelle situazioni che sappiamo evocare ricordi dolorosi, non rendendoci conto che restiamo comunque in balia degli agguati della memoria involontaria, pronta a cogliere inaspettate corrispondenze con profumi, immagini, parole, musiche, per ripiombarci, in modi sempre nuovi e sorprendenti, in una sofferenza che appare inesauribile.

La Didion non nasconde la propria vulnerabilità né la esibisce: la racconta, concentrandosi su quei frantumi in cui il dolore ci riduce, senza illudersi che sarà possibile rimetterli insieme rendendo invisibili le rime di frattura, anzi affermando che è proprio quella nuova realtà diffratta e sbilenca lo spazio in cui possiamo (dobbiamo?) sopravvivere. Non a caso alla fine del libro mi è venuto in mente il kintsugi, una tecnica giapponese con cui si riparano gli oggetti di ceramica rotti, utilizzando dei composti a base di oro che non nascondono le crepe, ma le mettono in risalto, rendendoli unici e preziosi. Allo stesso modo è inutile nascondere le cicatrici che ci portiamo addosso perché sono quelle cicatrici a renderci diversi da quel che eravamo prima, non migliori o più forti, perché nessun dolore è utile (checché ne scriva Cameron), semplicemente diversi.

E su questo non ho altro da dire.

#fallabreve: La cognizione del dolore (cit.).
L’anno del pensiero magico di Joan Didion
Titolo originale: The Year of Magical Thinking
Il Saggiatore, 2008 (2005)
Traduzione di Vincenzo Mantovani
La mia valutazione su Goodreads: