Scegliere o non scegliere: questo è il problema – “Scarti” di Jonathan Miles

Sinossi (dalle note di copertina): Talmadge e Micah abitano abusivamente in un appartamento di Manhattan, vivendo serenamente degli avanzi che trovano nei cassonetti, ma il loro equilibrio subisce una scossa quando devono ospitare un vecchio compagno universitario di lui. Elwin, un linguista di mezza età lasciato dalla moglie, deve fare i conti con un padre malato che va perdendo la memoria. Sara, un’avvenente vedova dell’11 settembre, vede sgretolarsi il rapporto con la figlia adolescente e con il secondo marito, Dave, un uomo che ha costruito la sua fortuna riscuotendo debiti scaduti. E mentre i personaggi seguono i loro percorsi tra epifanie e rese dei conti, vecchi debiti da pagare e tentativi di comunicare con le generazioni future – le storie si muovono verso una convergenza ineluttabile e un epilogo che per il lettore sarà difficile dimenticare. A partire dai detriti, reali e metaforici, delle loro esistenze, Jonathan Miles costruisce un romanzo corale dagli incastri perfetti, tenuto insieme da una prosa impeccabile (e a tratti esilarante) e da una profonda riflessione etica sul concetto di spreco e di consumo, per giungere alla conclusione che tutto, ma proprio tutto, può essere salvato.

Pur non essendovi dubbi sul fatto che il libro sia una “profonda riflessione etica”, come recitano le note di copertina, ritengo che questa non si limiti al “concetto di spreco e di consumo”, ma riguardi anche ciò che precede e, in qualche modo, produce lo scarto: e cioè la scelta. Ogni personaggio, esattamente come noi, è infatti il prodotto delle proprie e delle altrui scelte, e degli scarti che queste hanno determinato. Qualunque cosa può essere uno scarto: oggetti, idee, emozioni, ricordi, persino i sogni (“gas di scarico della fermentazione cognitiva”). Anche un uomo, se la società in cui vive adotta criteri puramente efficientistici per valutarne l’utilità, criteri che possono trasformare un malato, come il padre di Elwin, in qualcosa “da rottamare, dato che il costo delle cure eccedeva il suo valore, man mano che il buio avanzava nella sua memoria”. E se pensate che questa non sia anche la nostra società, andate a farvi un giro in una “«struttura residenziale assistita» che in realtà era un ospedale […] che in realtà era un ospizio” e che invece, per tacitare le nostre coscienze, chiamiamo “casa di riposo”.
Ma questa è solo una delle tante implicazioni etiche che derivano dall’analisi di Miles, che non si limita a una scontata e generica critica del modello di sviluppo della società occidentale, ma spinge la sua indagine fino alle ultime articolazioni di quel modello, quelle che impattano sulla nostra vita. Un modello per cui da un lato ci sono diete che consigliano agli obesi, come Elwin Jr., di “mangiare solo metà porzione e buttare il resto nella spazzatura” e dall’altro c’è Talmadge che, rovistando nei rifiuti alla ricerca proprio di quegli scarti alimentari ancora utilizzabili, dice: “Guarda quanta roba buttano via. È da criminali. […] nel mondo c’è gente che ha fame. Gente che muore di fame. E guarda qua. Questi la roba da mangiare la seppelliscono”.
Un modello paradossale, peraltro, perché svilendo il valore etico e l’importanza della 71DcLgyFxDLscelta, inducendo continuamente bisogni artificiali che cerchiamo di soddisfare accumulando compulsivamente di tutto, ci condanna di fatto alla paralisi progressiva, alla stasi, all’asfissia. Come se, per colmo d’ironia, non scegliere, e quindi non scartare nulla, trasformasse progressivamente la nostra stessa vita in uno scarto. È quanto capita a Sara quando va a cercare una bistecchiera in un box di deposito preso in affitto, così ingombro di “roba che non era più, o non era mai stata necessaria”, da costringerla a rinunciare alla ricerca e a comprarne una nuova. Ma è quel che accade anche a noi quando riempiamo le nostre memorie digitali di migliaia di foto che non vedremo mai, e di migliaia di file musicali che non ascolteremo mai. Cose che facciamo semplicemente perché possiamo farle, perché non siamo costretti a scegliere.
C’è qualcosa, però, che nessuno dei personaggi di Miles riesce a scartare, ed è il dolore. Un dolore che innerva tutto il libro, di volta in volta cupo, sordo, lancinante o rabbioso. C’è quello di Micah che origina dall’infanzia malata a cui l’ha costretta un padre paranoico. Quello di Elwin Jr. che non ha ancora superato l’abbandono della moglie, e si sente in colpa per aver “seppellito il padre in quella discarica umana, in quella pila di scarti, di antenati obsoleti” che è la casa di cura. C’è poi Sara, che al dolore per la perdita “fisica” del marito Brian, ne aggiunge uno ancora più devastante quando decide di leggerne le mail, scoprendo di essere stata tradita: una scelta che la rende vedova anche delle memorie legate alla vita in comune, all’immagine ideale che ne aveva. Ma quel marito che Sara desidera cancellare anche dai suoi ricordi, è il padre amatissimo di Alexis, che non ne accetta la scomparsa, nè il fatto che per la mamma la vita vada avanti: “la prima volta che la madre era uscita con un uomo dopo l’11 settembre – doveva essere passato un anno, ma a lei era sembrato il 12 settembre”.
Scarti è un romanzo bello e ambizioso, dalla struttura solida ed elegante in cui le tre linee narrative, pur procedendo in maniera autonoma, si sfiorano più volte l’un l’altra, fino all’accelerazione drammatica che salderà per sempre i destini di Alexis e di Micah.
Delle tre storie che compongono il libro, ritengo che la più riuscita sia quella di Elwin, anzi degli Elwin, perché se c’è un personaggio che mi è rimasto nel cuore è proprio il professore di storia Elwin Cross Sr., protagonista del bellissimo capitolo che apre la terza parte, quando lo troviamo chiuso in una “stanza che in realtà era una cella”, mentre prova testardamente a scrivere il suo trattato sul genocidio. Si scorda continuamente che la moglie è morta, “o almeno così gli dicevano tutti. Lui non ricordava la sua morte”. Ma non c’è nulla di positivo in questa apparente “immunità alla morte e all’abbandono” che la demenza sembra garantirgli, perché per ogni resurrezione di Alice c’è un dolore che si rinnova quando viene “sommerso dalla consapevolezza” della sua perdita, della fine di una storia d’amore in cui a un certo punto non parlavano più di niente, ma “un niente assolato e meraviglioso: quel niente che sopraggiunge dopo che due persone hanno coesistito così a lungo che non possono mai più dirsi nulla di nuovo, nulla a parte addio”. Sfogliando la corrispondenza, poi, una lettera del’Amministrazione Veterani gli innesca un ricordo di guerra, quando era stato a un passo dall’uccidere un vecchio inerme, mentre l’estratto conto della carta di credito, gli riporta alla mente un tradimento che lo fa ancora sentire in colpa, anche se non era mai andato oltre un bacio, avendo compreso in tempo “che c’era un equilibrio nella vita, […] così che qualsiasi beatitudine ulteriore” rispetto alla vita di sempre “avrebbe dovuto essere pagata con un equivalente grado di dolore”. Riflettendo su quei due momenti fondanti della sua vita, di cui non aveva parlato mai con nessuno, si chiede: “come poteva sperare di comprendere e registrare le vite passate […] quando sapeva che la sua umile storia personale […] mai avrebbe potuto includere […] la verità primaria e segreta della sua vita?”. Perché “nessuno di quegli eventi cruciali sarebbe mai stato conosciuto, sarebbero stati sepolti insieme a lui, come forse succede a tutti i momenti veri. Ciò che ci lasciamo dietro, si era convinto, sono solo simulacri, residui inventati della nostra identità pubblica”. Come a dire che gli altri conoscono di noi sono solo gli scarti della nostra vera essenza, e che la Storia racconta solo un insieme di scarti.
Fra tutte le vicende narrate da Miles, l’unica che sembra aprirsi a una possibile palingenesi è quella di Elwin Jr. grazie all’incontro con Sharon al Gruppo Segnaletica del Progetto Interramento Scorie, chiamato dal Governo a elaborare un sistema di avvertimenti per segnalare un deposito di scorie nucleari che possa essere comprensibile anche fra diecimila anni. E l’immagine ricorrente di questa discarica mortale in mezzo al deserto, sembra la metafora perfetta dell’unica eredità che saremo in grado di lasciare alle generazioni future. Perché “questa è la nostra condizione. Noi non risolviamo i problemi. Noi li rimpiazziamo con nuovi problemi”. Almeno fino a quando un problema rimpiazzerà noi.
E su questo non ho altro da dire.

#fallabreve: Siamo tutti il grande scarto di qualcuno.
“Scarti” di Jonathan Miles
minimum fax, 2015 (2013)
Traduzione di Assunta Martinese
pp. 577
€ 18,00 (eBook € 9,99)