“Rayuela” di Julio Cortázar

“…ci ho messo dentro tutto ciò che provo davanti alla totale disfatta dell’uomo occidentale.” [1]

Cortázar non mente quando, nella tavola d’orientamento all’inizio del libro, afferma che Rayuela è “molti libri, ma soprattutto è due libri”. In uno, quello che racchiude le prime due parti del romanzo, seguiamo le vicende di Horacio Oliveira a Parigi e a Buenos Aires. Una storia che risucchia il lettore in un “altrove” a un tempo impossibile e perfettamente plausibile ma che, se terminasse al cinquantaseiesimo capitolo, potrebbe rientrare a pieno titolo nel solco di una certa letteratura sudamericana surreale e spavaldamente vitalistica: un libro da “lettore-femmina”, insomma[2].

Ma io non sono un “lettore-femmina”, e il mio rapporto con la lettura è fisico oltre che mentale, con la “matita in mano, litigando con l’autore, mandandolo al diavolo o abbracciandolo”[3]. E meno male, perché il secondo libro, con cui entra in gioco la terza parte del romanzo, è una vera e propria epifania. È come se uno specchio deformante andasse in frantumi e l’immagine riflessa, pur restando grottescamente irriducibile a un canone di “normalità”, risorgesse come una fenice dalla sua moltiplicazione incompleta; come se dalla sua deformazione esplosa derivasse una nuova e sorprendente coerenza. D’altronde è lo stesso Cortázar a dirci che siamo di fronte a: “un quadro anamorfico in cui occorre cercare l’angolatura esatta […]”[4]. Volendo provare ad aggiungere qualcosa, si potrebbe dire che siamo di fronte a un anamorfismo caleidoscopico, in quanto le angolature in grado di restituire al lettore nuove immagini sono molte più di una (e non è un caso che il jazz, con la sua capacità di disarticolare ritmo, armonia e melodia in innumerevoli variazioni, abbia  tanto spazio). Ma non è ancora tutto qui, perché lo specchio in frantumi di Cortázar non si limita a riflettere ciò che gli sta davanti, ma anche quello che c’è dietro. L’impressione è che, mimando con il salto da un capitolo all’altro del romanzo i salti che si fanno giocando a campana, Cortázar sia riuscito ad aggiungere al testo una sorta di quinta metaletteraria, che si diverte a lacerare di continuo, lasciando al lettore la possibilità di guardare, pur fuggevolmente, quello che sta al di là: insomma uno Chagall passato per le mani di Fontana.

Eppure non è un libro “difficile” o che richieda al lettore particolari capacità ermeneutiche, perché è lo stesso Cortázar a fornirgli le chiavi di lettura necessarie. D’altronde, sono convinto che, tranne rare eccezioni, i veri grandi libri sono autoesplicativi, contengono in se stessi la propria interpretazione. I libri oscuri o che si prestano a troppe spiegazioni sono spesso soltanto ampollosi, confusi, oppure così pieni di rimandi interni da fiaccare le energie del lettore in un gioco magari intellettualmente gratificante, ma che nulla ha a che fare con il piacere della lettura. E invece, per dirla alla Cortázar: “il genio è eleggersi geniale e riuscirvi[5] (e che lui ci sia riuscito non ho dubbi).

Nella costruzione di senso dell’opera, i capitoli della terza parte giocano un ruolo fondamentale, operando come micrometriche messe a fuoco che aiutano il lettore a riprendere fiato dopo le incursioni fantasmagoriche in un universo dove Parigi e Buenos Aires, rispetto alla prima lettura, non sono più luoghi reali, ma pretesti, letteralmente: parole che stanno prima del testo, fuori da esso: “…il mondo è una figura, occorre saperla leggere. Leggerla, ovvero generarla[6] (il corsivo è mio). Le note di Morelli, poi, sono puro postmodernismo ante-litteram, vere e proprie bolle spazio-temporali di sospensione della (dalla) realtà: materiale preparatorio del romanzo di cui è egli stesso un personaggio. D’altronde si ha spesso l’impressione che anche gli altri personaggi stiano in realtà leggendo (scrivendo?) il libro di Morelli di cui sono protagonisti, in una sorta di mise en abyme metaletterario.

“Tentare invece un testo che non vincoli il lettore e invece lo renda necessariamente complice nel suggerirgli, al di sotto della trama convenzionale, altre più esoteriche. […] Provocare, impegnarsi in un testo ingarbugliato, slegato, incongruente, accuratamente antinarrativo (ma non antiromanzesco).”[7]

Questa perfetta armonia fra scrittura e struttura, dà al racconto un’accelerazione stordente, e trasforma lo stesso lettore nel personaggio di un libro pop-up, scaraventandolo, ogni volta che gira pagina, in un mondo diverso, ma sempre fantastico, psichedelico, di sorprendente tridimensionalità. D’altronde, non è forse lo stesso Morelli a scrivere che: “…il vero e unico personaggio che mi interessa è il lettore, nella misura in cui quanto scrivo può contribuire a mutarlo, a dislocarlo, a stupirlo, ad alienarlo”[8]?

Cortázar si diverte a saltare dentro e fuori dalla testa dei suoi personaggi e dei suoi lettori. Anzi, di più: Cortázar è Oliveira, è Morelli, è Traveler, è la Maga, è Gekrepten, è tutti i personaggi ed è anche il lettore. Folle? No, perché  stiamo parlando del libro in cui è scritto che: “[…] a traverso la pazzia si poteva forse arrivare a una ragione che non fosse quella ragione la cui fallanza è pazzia”[9], e di cui l’Autore ha detto che: “non è un romanzo, ma una lunga narrazione che in definitiva finirà per essere la cronaca di una pazzia”[10].

Impossibile, almeno per i miei poveri mezzi, dire di più. Anche perché ho come l’impressione che Cortázar stia lì, col suo sguardo spettinato, a sorridere dei tentativi di distillare da Rayuela un significato o, peggio, una morale. Ho invece l’impressione che annuirebbe con gentile bonomia se vedesse che ci limitiamo a riflettere (a rifletterci) su una pagina, alla ricerca di una risonanza inattesa e inspiegabile con le nostre “terminazioni nervose” (quel “clic” di cui parla DFW).

In conclusione: potremmo anche leggere questo libro come fosse un romanzo “normale”, ma per godere a pieno della sua bellezza, dobbiamo andare oltre lo specchio in frantumi che Cortázar ci mette davanti. Scopriremo così che la vita stessa è una gigantesca rayuela disegnata nel cortile di un manicomio: pensare di vincere perché siamo riusciti a centrare il cielo (l’ultima casella), è l’illusione in cui ci culliamo per un momento, prima di indossare nuovamente la camicia di forza e rientrare nella nostra stanza imbottita.

E su questo non ho altro da dire.

#fallabreve: Sporgersi leggermente più in fuori e lasciarsi andare, plaf tutto infinito (semicit.).

Rayuela di Julio Cortázar
Titolo originale: Rayuela
Einaudi, 2013 (1963)
Traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini
pp. 635
€ 15,50 (eBook n.d.)

La mia valutazione su Goodreads:

[1] Da una lettera a Fredi Guthmann del 6 giugno 1962.
[2] Con questo termine Cortázar, in una lettera a Jean Barnabé del 3 giugno 1963, definisce “quel signore (o signora) che compra i libri come se stesse assumendo un domestico o siede nella platea per divertirsi o essere servito”.
[3] Dalla lettera sopracitata.
[4] Rayuela, pag. 88.
[5] Op. cit., pag. 420.
[6] Op. cit., pag. 391.
[7] Op. cit., pag. 409.
[8] Op. cit., pag. 449.
[9] Op. cit., pag. 84.
[10] Da una lettera a Jean Bernabé del 30 maggio 1960.


Fonti iconografiche
:

Julio Cortázar, Parigi 1968  (foto di Sara Facio).
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