Quel che penso di… Sally Rooney

“Poi un giorno mi spiegate questa cosa dello hype, che se di un libro si parla bene in tutto il mondo c’è senz’altro qualcosa sotto ;)”
(@Einaudieditore su Twitter a proposito di Persone normali)

 

Parlarne fra amici

La prima parte del romanzo, emotivamente più asciutta e misurata, risulta la più riuscita, mentre la seconda, focalizzata sulla liaison fra Frances e Nick, vira a tratti su registri quasi da romanzetto rosa e comunque risente di una sovrabbondanza di elementi (la malattia, i problemi economici, il ruolo del padre, il ménage à trois, per citarne alcuni) che mettono alla prova, per non dire in crisi, la capacità narrativa ancora acerba della Rooney.

Nello specifico mi sembra di aver colto un lieve abuso di psicologismi, probabilmente dovuti alla scelta di una voce narrante, quella di Frances, espressione di un certo soggettivismo proprio di uno stile di comunicazione che sembra utilizzare una sintassi social anche quando avviene nel mondo reale.

Parlarne tra amici
Titolo originale: Conversations with Friends
Einaudi, 2018 (2017)
Traduzione di Maurizia Balmelli
pp. 304
La mia valutazione su Goodreads:

 

Persone normali

Esistono “persone normali”? No, perché la normalità è un concetto statistico che si definisce ex post sulla base della distribuzione di una certa caratteristica (l’altezza o il peso, ad esempio) all’interno di una popolazione. Non a caso la curva che descrive questa distribuzione si chiama “normale” (o gaussiana): ma a essere “normale” è solo la curva, non quello che descrive. E infatti la storia di Connell e Marianne è quella di due persone che tutto sono tranne che normali.

La frammentarietà con cui i protagonisti tentano, con scarso successo, di dar voce ai propri sentimenti potrebbe, come già visto nel suo precedente romanzo, essere il riflesso di stili comunicativi social che privilegiano la sintesi e la concisione ma che talvolta virano nella laconicità. Quello fra i due è un rapporto in cui non c’è corrispondenza fra l’intimità fisica e quella emotiva, perché per questa non riescono a trovare le parole per definirla e, perciò stesso, farla esistere. Si ha l’impressione che l’impaccio con cui soprattutto Connell affronta le leve emotive profonde alla base della relazione con Marianne, sia almeno in parte condizionato dall’abitudine a comunicare con la mediazione di uno schermo e una tastiera. Il risultato di tutto questo è un progressivo affondamento nelle sabbie mobili del non detto, in una dinamica che viene passivamente subita dai protagonisti come ineluttabile.

Anche qui una certa qual banalità nella scrittura, già notata nell’opera prima, potrebbe essere il riflesso di una mancanza di profondità più dello Zeitgeist che non dell’opera in sé. In altri termini, se mi si passa il ricorso a questa ormai abusata immagine baumaniana, la “liquidità” della scrittura sembra più espressione di una mimesi della  “liquidità” dei rapporti umani che racconta che non di una sua intrinseca superficialità. Tuttavia questa scarnificazione così spinta della dinamica relazionale fra i due, mi riferisco in particolare all’utilizzo quasi strumentale dell’incomunicabilità,  rappresenta un elemento di criticità.

Questi limiti appaiono evidenti soprattutto dopo le prime cento pagine, che invece mi sono sembrate di ottimo livello. Purtroppo anche qui, come in Parlarne tra amici, nella seconda parte assistiamo a una non del tutto naturale accelerazione degli eventi, con l’inserimento continuo di nuovi elementi nell’intreccio (l’autolesionismo di Marianne,  la famiglia disfunzionale, la depressione di Connell, ad esempio), con un certo conseguente appannamento della freschezza e della vivacità che avevano caratterizzato la prima parte, nonostante una migliorata capacità di controllo sul testo da parte dell’Autrice.

Persone normali
Titolo originale: Normal People
Einaudi, 2019 (2018)
Traduzione di Maurizia Balmelli
pp. 241
La mia valutazione su Goodreads:


 

Conclusione

Per tornare alla citazione in esergo, penso che il motivo principale per cui l’hype attorno all’uscita di un libro susciti così tanta diffidenza, per non dire fastidio, sia legato al fatto che, innanzitutto, quasi mai l’oggetto di tanto entusiasmo si rivela all’altezza delle aspettative suscitate. E poi, spesso, si ha la sensazione che venga artificialmente alimentato dal chiacchiericcio scomposto di soggetti più interessati a coltivare il feticcio della propria visibilità che non a contribuire a un confronto minimamente sensato sui contenuti di un’opera o su un Autore.

Personalmente non sono interessato al dibattito sul fatto se i libri della Rooney siano o meno dei capolavori, dibattito ozioso in assoluto ma che, nel caso di una scrittrice trentenne con due romanzi all’attivo, mi pare francamente ridicolo. Checché ne scrivano giornalisti e lit-blogger (ché di critici letterari in giro ne son rimasti pochini), la gamma di giudizi su un’opera letteraria è (deve essere) più articolata della dicotomia cagata pazzesca/capolavoro assoluto. Se ci fosse in giro un minimo di equilibrio (senza scomodare l’onestà intellettuale), forse leggeremmo vere recensioni e non lanci d’agenzia camuffati che spesso si limitano a sunti della trama infarciti di improbabili paragoni con i grandi del passato. E questo, chissà, potrebbe ridurre la generalizzata diffidenza nei confronti di quel famoso hype, al netto di legittime logiche editoriali e commerciali.

Il successo planetario della Rooney è un elemento sufficiente per gridare al capolavoro? Ovviamente no. Ma non giustifica neanche giudizi immotivatamente tranchant e venati da un peloso snobismo intellettuale. Non fatico a capire che molti lettori possano riconoscersi nei suoi personaggi e nelle sue storie, e so quanto questo possa essere appagante. Tuttavia, uno scrittore di livello non può limitarsi a verbalizzare, in maniera anche eccellente, la realtà, ma deve provare a dare un nuovo nome a qualcosa che già c’era o, auspicabilmente, a dare un nome a qualcosa che prima non c’era, magari qualcosa di cui il lettore non sospettava neanche l’esistenza o che aveva solo vagamente percepito nella famosa “anticamera del cervello”. E se proprio devo trovare un limite nelle opere della Rooney è questo: limitarsi a descrivere il proprio tempo. Questo può pagare nell’immediato, ma per superare l’esame del tempo, a mio avviso, occorre che la parola sia abitata da un pensiero che riesca a ritagliarsi un’attualità atemporale, a risolvere quest’aporia.

Tutto ciò premesso, concludo dicendo che i libri della Rooney mi sono piaciuti, sia pur con moderazione, il secondo più del primo (che comunque ho trovato molto più convincente di acclamatissimi romanzi sfornati anche recentemente da autori ben più maturi e pluripremiati). Penso che leggerò anche il prossimo, non foss’altro per capire se quegli elementi stilistici, che ho attribuito alla sua volontà di emulare il milieu psicologico delle moderne relazioni, evolveranno o si riveleranno un limite o, peggio, un cliché.

E su questo non ho altro da dire.