“Proust a Grjazovec” di Jósef Czapski

Sinossi (dalle note di copertina): Tra il 1940 e il 1941 nel gulag di Grjazovec, quattrocento chilometri a nord di Mosca, un gruppo di ufficiali polacchi detenuti trova un modo decisamente inusuale, e quanto mai efficace, per resistere all’annientamento morale e intellettuale. A turno intrattengono i compagni di prigionia – accalcati in una stanza, esausti dopo le ore passate a lavorare all’aperto, nel gelo feroce dell’inverno russo – parlando di argomenti con cui hanno particolare dimestichezza. Ne nasce così una serie di vere e proprie lezioni, pressoché clandestine, sui soggetti più disparati: dalla storia del libro a quella dell’Inghilterra, dall’alpinismo all’architettura. Józef Czapski, pittore di vaglia e scrittore, conversa di pittura francese e pittura polacca, nonché di letteratura francese. E soprattutto rievoca e commenta – citando a memoria, senza il minimo supporto cartaceo, e tuttavia con una precisione sorprendente – intere pagine della Recherche di Proust, opera che l’Unione Sovietica ha messo all’indice in quanto espressione paradigmatica della letteratura borghese decadente. E quello che ne scaturisce – cui abbiamo oggi accesso grazie alla trascrizione in francese che lo stesso Czapski realizza “a caldo” – non è soltanto una dimostrazione del potere del ricordo e la testimonianza di un modello singolarissimo di resistenza, ma anche una lettura di Proust di suprema finezza.

 

È un libro davvero sorprendente questo di Czapski, che non è possibile valutare Czapskicorrettamente senza considerare il contesto in cui è nato. Se infatti dovessimo giudicarlo come un saggio sulla Recherche, non potremmo esimerci dal sottolinearne lacune e semplificazioni, specie rispetto ad altri testi critici che indagano l’opera proustiana con ben altra profondità e completezza. Ma questo, e l’Autore lo dichiara subito nell’introduzione, non è un saggio, ma “una raccolta di ricordi su un’opera alla quale dovevo molto, e che non ero sicuro di poter rivedere, un giorno”. Perché? Perché questo libro è nato nel 1940 a Grjazovec, in un campo di prigionia siberiano realizzato sulle rovine di un convento. È lì che il gruppo costituito da Czapski e da altri settantotto ufficiali polacchi, sopravvissuti alla deportazione di ben quattromila uomini, ottenne il permesso di tenere degli incontri in cui ciascuno parlava “degli argomenti che meglio conosceva”. Fra quelle macerie, nonostante la stanchezza dovuta al lavoro “all’aperto, a temperature che potevano scendere fino a quarantacinque gradi sotto lo zero”, la sera erano tutti “intenti ad ascoltare” quelle singolari conferenze “su temi così lontani dalla nostra realtà di allora”.

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Jósef Czapski: Autoritratto (1937-1939)

Gli appunti utilizzati per preparare le sue conversazioni sulla Recherche, e miracolosamente messi in salvo, furono poi rielaborati in francese fra il 1943 e il 1944. Appunti scritti con una grafia minutissima per utilizzare al meglio la poca carta a disposizione e che testimoniano la cura e l’impegno con cui questo singolarissimo intellettuale (di cui Wojciech Karpiński traccia un bel ritratto alla fine del libro) cercò di dare forma ai suoi pensieri basandosi esclusivamente sulla memoria: il che, visto l’argomento trattato, mi sembra splendidamente ironico. Scopriamo allora che quello per Proust non fu un amore a prima vista per Czapski, che era “abituato a romanzi in cui succede qualcosa, in cui l’azione si sviluppa in modo più rapido ed è raccontata con una lingua più piana”. Il suo primo contatto con le “disparate, remote e inattese associazioni”, con “quel suo modo, così singolare, di trattare i temi intrecciandoli, anziché gerarchizzandoli”, non va a buon fine. L’amore scocca solo un anno dopo, grazie a una infezione tifoidea che consentì all’Autore di dedicare l’intera estate alla lettura “da cima a fondo” della Recherche[1]. Amore per quello stile particolarissimo, “che dà l’impressione di una carezza continua”, una carezza che, pur nella miserabile e terrificante realtà cui erano costretti, consentì a quel manipolo di sventurati di alimentare la parte più nobile del loro essere uomini, che salvò loro la vita: letteralmente.

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Marcel Proust

Nonostante il contesto estremo in cui scrisse, Czapski riesce a regalare intuizioni di estrema eleganza, che mi hanno aperto nuovi orizzonti sull’interpretazione dell’opera proustiana, sulla sua assoluta attualità. E confesso che quando ho letto frasi come: “le sue pagine diventano un resoconto non tanto degli eventi quanto dei pensieri suscitati dall’urto con gli eventi”, oppure come: “non sono i fatti puri e semplici, ripeto, a ossessionare Proust, bensì le leggi segrete che li governano, la volontà di svelare i meccanismi segreti dell’essere, quelli più indefinibili” (e questa volta il corsivo è mio), mi è venuto del tutto naturale pensare a quanto diceva DFW sull’effetto della letteratura sulle “terminazioni nervose” del lettore. Peraltro, non appena ho cominciato a pensarci su, ho scoperto che le analogie fra i due non si fermano qui. Allorchè Czapski scrive che l’opera di Proust “agisce su di noi come la vita filtrata e illuminata da una coscienza la cui precisione è infinitamente più grande della nostra” (e il corsivo è ancora mio), le immagini del Sommo e di Lui in persona, si sono sempre più sovrapposte fino a quando, riflettendo sul fatto che, in fondo, la Recherche non è altro che una gigantesca opera metaletteraria, è stato come se a quella matinée dai principi di Guermantes ci fossi andato io[2]. Non so se avrò il talento e le energie per sviluppare questo parallelismo, ma so per certo che è un’idea che varrebbe la pena approfondire.

Perché chi, come me, ama i libri, sa che quando Czapski scrive che “le ore trascorse in compagnia dei miei ricordi su Proust e Delacroix mi sembrano oggi le più felici della mia vita”, dice il vero, avendo conosciuto quella sensazione incontenibile di gioia stupefatta e riconoscente che si prova quando si ha la fortuna di incontrare la bellezza: in un libro, in un quadro, in una melodia, o in una qualsiasi delle tante forme con cui benevolmente si concede. E sa che saranno quei momenti a dare sostanza e peso a una vita che altrimenti, sub specie aeternitatis, non è altro che un grumo di spazio e di tempo senza senso.

E su questo non ho altro da dire.

 

#fallabreve: Leggere non serve a nulla. A parte salvarti la vita.
“Proust a Grjazovec” di Jósef Czapski
Adelphi, 2015 (1987)
Traduzione di Giuseppe Girimonti Greco
pp. 125
€ 18,00

[1] Vorrei notificare ai miei cinquantasette lettori, tuttavia, che l’aver contratto una malattia lunga e debilitante, può essere considerata una condizione sufficiente ma assolutamente non necessaria per affrontare l’opera proustiana.

[2] E se non capite questa citazione, è il caso che leggiate la Recherche.