Piccoli mostri crescono – “Boy A” di Jonathan Trigell

Divisa in 26 capitoli, uno per ogni lettera dell’alfabeto (dalla A di “Apple” intesa come “mela marcia” – Cupertino non c’entra nulla, alla Z di “Zero”), la storia di “Boy A” si ispira a un fatto di cronaca del 1993 e si sviluppa su due linee temporali alternate. La prima racconta la storia di Jack che, condannato per un omicidio commesso quando era ancora un bambino, riesce a strappare all’inflessibile giustizia inglese la possibilità di una nuova vita grazie ai buoni uffici del suo tutore Terry. Con tono sobrio e asciutto l’Autore descrive il paradosso esistenziale di un ventiquattrenne che, senza alcuna esperienza di vita se non quella dell’universo alienante e corrotto del carcere, prova a inventarsi un futuro essendo però costretto a inventarsi anche un passato. Infatti per proteggerlo dalla caccia all’uomo scatenata dalla devastante combinazione

 fra la sete di vendetta dell’opinione pubblica e il sensazionalismo dei tabloid, nulla di quello che di sé racconta agli altri può essere vero, a cominciare dal nome, scelto a caso da “Il grande libro dei nomi”. Jack deve mentire sempre e a tutti perché un solo errore sarebbe fatale per la sua nuova vita e forse per la sua vita tout court. I problemi iniziano quando si fa degli amici e soprattutto quando si innamora, ricambiato, di una donna. Perché anche “Shell, la donna che ama, non sa nulla di lui che sia vero. Neanche un nome”. Abituato alla cattività della prigione, in cui l’esercizio dell’autonomia è prossimo allo zero, la complessità del mondo reale e dei rapporti umani lo manda in crisi. Per Jack, semplicemente, “ci sono troppe scelte nel mondo”. Poi, quando si trova di fronte al dilemma se dire o meno la verità su se stesso almeno alla donna che ama, tutto il fittizio universo che lo circonda va in frantumi.
Parallelamente a questa, Trigell sviluppa la storia del bambino che fu Jack. Un bambino che si chiama solo “A” e che, per una serie di eventi in gran parte casuali, si trova coinvolto assieme a “B” nell’assassinio di Angela, una bambina di dieci anni, poco più piccola di loro. E questa parte è anche migliore della prima. Perché a ben vedere tutto il romanzo ruota sostanzialmente attorno a una affermazione semplice quanto disturbante: “i bambini possono essere mostri”. Di fronte a un crimine orrendo compiuto da esseri a cui siamo soliti associare i concetti di purezza e di innocenza, il sentire comune si trova infatti di fronte a un abisso nel quale chiunque avrebbe paura di scrutare. Perché solo gli stolti possono cavarsela pensando che quei “due dovevano per forza essere malvagi, essere diversi: altri demoni. Non potevano essere quello che un bambino normale sarebbe potuto diventare, nelle stesse circostanze”. E se invece fosse vero il contrario? È quanto sembra intuire Elizabeth (una delle prime psicologhe a occuparsi di “A”) quando, non vista, osserva il figlio Thomas che si diverte (si diverte) mentre fa una strage di formiche. Quando gli chiede perché lo fa, il bambino risponde: “Tu non mi hai fermato, mamma. Credevo che mi avresti fermato”. Siamo proprio sicuri che trovandosi “nelle stesse circostanze” di “A” e “B” e senza nessuno pronto a “fermarlo”, per Thomas sarebbe stato differente schiacciare una formica o uccidere un essere umano? Perché, in fondo, “A” “cos’è che aveva fatto? Una cosa orribile, una cosa tremenda, ma una cosa che aveva fatto da bambino. È possibile commettere un omicidio in piena innocenza?”. Bella domanda. Ognuno risponda come può.
“A” è un bambino cresciuto con così poco amore attorno a sé da confessare di aver partecipato all’uccisione di Angela solo per poter continuare a ricevere le visite di Terry, l’unico adulto con cui è riuscito a stabilire un rapporto affettivo e che rappresenta per lui un vero e proprio padre vicario. In realtà non scopriremo mai cosa successe davvero in quel giorno maledetto, anche se probabilmente le cose andarono in modo molto diverso dalla versione di comodo accettata dai giudici e dai benpensanti dalla cattiva e frettolosa coscienza.
È un vero peccato, quindi, che nelle ultime quaranta pagine l’Autore si faccia prendere dall’ansia del “finale a effetto” che così tanti libri ha (almeno in parte) rovinato. Intendiamoci: “Boy A” rimane una buona opera prima. Un diverso finale, a mio avviso, l’avrebbe resa ottima.
E su questo non ho altro da dire.

#fallabreve: Nessuno sfugge al proprio passato.
“Boy A” di Jonathan Trigell
ISBN Edizioni 2009 (2004)
Traduzione di Tomaso Biancardi
pp. 250
€ 16,00

(Data di prima pubblicazione su ifioridelpeggio.blogspot.it: 06/10/2014)