Paradiso, inferno e quel che c’è nel mezzo – La “Trilogia del ragazzo” di Jón Kalman Stefánsson

Ci sono libri per i quali è secondario esprimere un giudizio di valore, dire se sono belli o brutti. Sono i libri che definisco “necessari”, cioè quelli in cui si percepisce che l’autore non avrebbe potuto fare a meno di scriverli. Sono libri di cui si avverte l’urgenza, l’ineluttabilità, la sincerità.
A mio avviso la Trilogia del ragazzo di Stefánsson, è una di quelle opere.
Per la storia rimando alle sempre completissime note in quarta di copertina di Iperborea. Mi limiterò a dire che è ambientata in Islanda alla fine del XIX secolo e che inizia come la storia di un ventenne: il “ragazzo” (non se ne rivelerà mai il nome, quasi a non sminuirne la potenza archetipica). Ben presto, però, ci si trova proiettati in un romanzo a più voci, quasi un romanzo collettivo, anche se si sviluppa in uno spazio abbastanza limitato (il Villaggio – anch’esso mai nominato – e alcuni paesi vicini), spazio reso quasi asfittico e claustrofobico da una natura brutale, e in un tempo piuttosto breve, più o meno tre mesi.
Ma non è una storia collettiva nel senso di un’alternanza di voci narranti o di protagonisti (come nei romanzi alla Buddenbrook per intendersi), quanto piuttosto di un affascinante intarsio narrativo di voci diverse che si raccontano quasi in contemporanea.
E anche la voce narrante della storia è una voce collettiva, quella di anime inquiete e dolenti, che ancora non hanno trovato riposo, forse perchè appartengono a morti non sepolti, a uomini annegati o dispersi in una tormenta, e che quindi vagano senza pace in un limbo indefinito “fra Dio e il diavolo, fra inferno e paradiso”. Una voce che cadenza ritmicamente tutta l’opera, quasi come un coro tragico.
La Trilogia ha un respiro lento ma possente, una scrittura intensa, ieratica, quasi ancestrale. È un’opera che non fa sconti al lettore, non usa scorciatoie o trucchi, ma ne pretende tutta l’attenzione.
È ambientata in un mondo duro e ostile.
Un mondo in cui si usano poche parole e in cui le avversità sono semplici elementi costitutivi dell’esistenza.
Un mondo fatto di acqua, spietata sia quando è liquida (“quel mare di cui viviamo, di cui moriamo”) che quando si trasforma in neve e ghiaccio.
Un mondo in cui è difficile trovare i punti cardinali per non smarrire la direzione di marcia o di navigazione, per non perdere l’orientamento.
Un mondo che costringe a pensare quasi esclusivamente a soddisfare i bisogni primari e in cui chiunque cerchi di elevarsi al di sopra di essi rischia di morire perché “anche le cose più banali possono costituire una minaccia, in questo mondo”.
È un mondo in cui una mela è un frutto prezioso, esotico, da rubare e mangiare di nascosto con le persone più care.
Un mondo in cui la natura non è neanche “matrigna”, per il semplice fatto che per essa l’uomo non esiste, non conta, è irrilevante. È una natura a cui bisogna semplicemente cercare di sopravvivere (e in questo senso non sono affatto d’accordo con quanto scrive Alessandro Zironi nella postfazione al terzo libro: in quest’opera la natura non è “corollario” e gli accadimenti narrati non “potrebbero avvenire ovunque”).
In questo mondo dominato dalle necessità e in cui l’uomo è meno che niente, il “ragazzo”, dopo la morte dell’amico Bárður che, distratto da un verso di Milton (“nulla mi è delizia, tranne te”) e dal pensiero della donna che ama, esce in mare dimenticando la cerata indispensabile per proteggersi dal freddo, intraprende un viaggio reale e metaforico alla scoperta del mondo, di se stesso, dell’amore (“quel sostantivo crudele, quella stella cometa”).
Decide quindi di recarsi al Villaggio per restituire il libro colpevole della morte dell’amico al vecchio Kolbeinn e poi uccidersi, convinto com’è che sopravvivere ai morti sia una specie di tradimento. Ma le cose non andranno così e l’incontro con Geirþrúður e “quella strana congrega di anime più o meno bistrattate” che la circondano, cambierà completamente la sua vita.
Paradossalmente, quindi, è proprio la morte di Bárður ad “aprire altri mondi per il ragazzo […] Bárður muore, e le capacità del ragazzo vengono messe in luce. Io muoio perché tu possa conoscere la felicità. Mi trasformo in buio perché tu abbia un futuro luminoso”.
E allora assistiamo alla lotta del ragazzo per affermare la propria individualità in quel mondo in cui è quasi un corpo estraneo, perché ama i libri, la poesia, le parole e “la lotta alla sopravvivenza non si accompagna bene alle fantasticherie, la poesia e il baccalà sono inconciliabili, e nessuno si sazia lo stomaco dei propri sogni”.
Ma il ragazzo sa che “l’uomo muore se lo privi del pane, ma avvizzisce senza sogni” ed è convinto che “la letteratura è un mondo che sta dietro al mondo. Ed è bellissimo”.
E anche per il “coro” delle anime perdute le parole sono importanti perché sono “armi contro il tempo, contro la morte, contro l’oblio, contro l’infelicità […] la nostra è una spedizione contro l’oblio, e nella speranza che dentro a queste storie, si nascondano le parole che libereranno tutti noi dalle catene. Anche te”.
Le parole come strumento di liberazione e di realizzazione del proprio destino, quindi, nella consapevolezza che “tradire se stessi” è il crimine peggiore che un uomo possa compiere, perché significa “non osare vivere”.
Ma quello del ragazzo nei confronti del valore della parola e della cultura non è un atteggiamento ingenuo o acritico. In un bellissimo passo dice: “Ho sempre creduto che i libri e la conoscenza rendessero felici. Adesso so che non è vero, ma è anche l’unica cosa che so. […] Una volta ho ricevuto una lettera, e c’era scritto che dovevo vivere. Ma non sapevo perché. È importante saperlo, non si può vivere solo perché non si è morti, è un tradimento. Bisogna vivere come le stelle, e splendere. […] Dobbiamo vivere per vincere la morte, è l’unica cosa che sappiamo e possiamo fare. Se viviamo come possiamo, e magari anche un po’ meglio, la morte non vincerà mai. Non moriremo, diventeremo qualcos’altro. […] Forse semplicemente ci trasformiamo in musica”.
E allora, abbiamo davanti un caso di “sublime contemporaneo” come afferma Emanuele Trevi nella postfazione di “Paradiso e inferno”? Probabilmente non del tutto, perché qualche difetto a mio avviso c’è. Ma ci siamo vicini. Maledettamente vicini.
E su questo non ho altro da dire.

#fallabreve: Vedi, io credo che il dolore, è il dolore che ci cambierà. Vedi, io credo che l’amore, è l’amore che ci salverà. (L. Dalla – Henna)
Jón Kalman Stefánsson
Iperborea
Traduzione di Silvia Cosimini

“Paradiso e Inferno” – 2011 (2007)
pp. 245
€ 16,00

“La tristezza degli angeli” – 2012 (2009)
pp. 371
€ 17,50

“Il cuore dell’uomo” – 2014 (2011)
pp. 457
€ 18,50

(Data di prima pubblicazione su ifioridelpeggio.blogspot.it: 19/05/2014)