“Olocaustico” di Alberto Caviglia

Siamo di fronte a un romanzo che, a parte la presenza dei fantasmi di Philip Roth e Rabin (sic!), al netto del fatto che personalmente ritenga le storie ironico-distopiche sulla Shoah un genere profondamente stucchevole, e non considerando quello che ho pensato l’ennesima volta in cui Caviglia, che è anche un regista, dichiara che la storia che ci sta raccontando sarebbe stata più adatta a un film, ha anche dei difetti.

Il primo è lo stile della narrazione. Partendo dal presupposto che il racconto delle vicende dell’ennesimo immaturo coglione avrebbe già di suo abbondantemente stancato, nel dubbio se scrivere una farsa sulla Shoah e la post-verità, oppure un romanzo distopico (sugli stessi argomenti), Caviglia sceglie un’amorfa via di mezzo, non rinunciando peraltro al vezzo di punteggiare il racconto di battute davvero dozzinali, più adatte a una puntata di Colorado che a un romanzo. Ma è certamente il ritmo del racconto a rappresentare il tasto più dolente, con le sue accelerazioni improvvise e i suoi altrettanto improvvisi rallentamenti, questi e quelle troppo forzati per non sembrare furbe scorciatoie narrative per cavarsi d’impaccio menando il can per l’aia. Dopo la scoperta del falso sopravvissuto, infatti, gli eventi precipitano in modo davvero implausibile. Quando Israele sembra a un passo dalla completa dissoluzione, invece, il tempo sembra fermarsi, dando così al protagonista la possibilità di mettere a punto e realizzare l’idea che, come per incanto, risolverà tutto. A questo punto, Cronos accelera di nuovo e tutto, compresi i problemi personali del nostro eroe, sembra tornare a posto. Più o meno, però, perché il libro si chiude preconizzando una prossima, imminente guerra fra verità e menzogna. Un happy ending parziale, insomma: vissero tutti felici e contenti, ma non per molto.

E su questo non ho altro da dire.

Olocaustico di Alberto Caviglia
Giuntina, 2019
pp. 303
La mia valutazione su Goodreads: