‘O famo strano?

Casa di foglie di Mark Z. Danielewski

Johnny Truant, un giovane tatuatore dal passato difficile e dal presente non meno complicato, mentre è alla ricerca di un nuovo appartamento, trova casualmente in un baule un enorme e frammentario ammasso di carte. Scoprirà che si tratta di un saggio intitolato La versione di Navidson che il precedente inquilino, Zampanò, un vecchio cieco morto da poco, ha scritto[1] su un film che Will Navidson, un famoso fotografo, ha girato per documentare una serie di inspiegabili e inquietanti fenomeni verificatisi nella nuova casa dove si era trasferito con la famiglia. Questa, in estrema sintesi, la trama del romanzo, opera prima di Mark Z. Danielewski pubblicata negli Stati Uniti nel 2000 e, in Italia, una prima volta nel 2005 da Mondadori in una edizione non del tutto fedele all’originale, e nel 2019 da 66THAND2ND in una edizione filologicamente ineccepibile.

Le linee narrative principali sono due. La prima si sviluppa attorno al saggio ricostruito da Johnny a partire dal manoscritto di Zampanò. La seconda è rappresentata dalle numerose e spesso complicatissime note al testo in cui Truant, oltre a documentare il lavoro “filologico” sul saggio, racconta anche momenti salienti della sua vita, permettendo al lettore di ricostruirne sia pur parzialmente la biografia. Johnny scopre ben presto non solo che le citazioni e i riferimenti bibliografici di cui è infarcita l’opera, che dovrebbero testimoniare la risonanza internazionale del documentario, sono per la massima parte fittizi,  ma anche che lo stesso documentario è sconosciuto e introvabile[2]. Nonostante questo sviluppa una vera e propria ossessione per il saggio (o per il documentario, fate voi), mettendo ulteriormente a repentaglio il suo già vacillante equilibrio psichico. Il romanzo è infine completato da una serie di appendici fra cui la più importante è certamente quella che contiene le lettere scritte a Johnny da sua madre, Pelafina, da molti anni ricoverata in un ospedale psichiatrico per motivi che lascerò all’eventuale lettore il piacere di scoprire. Questa parte, pubblicata da Danielewski anche come opera a sé stante[3], è piuttosto interessante perché fornisce alcuni dettagli sulla vita di Truant che spesso differiscono in maniera sostanziale dalla versione del ragazzo anche se, visto lo stato mentale di entrambi i narratori, è difficile stabilire chi sia quello più affidabile.

Tutto ciò premesso, si potrebbe parlare di un’opera che, nel genere horror, avrebbe anche una sua dignità se non fosse che, in realtà, il motivo per cui il romanzo di Danielewski è diventato un oggetto di culto per schiere di seguaci, ha poco a che vedere con la trama e molto con la “forma” con cui questa viene sviluppata. Siamo infatti al cospetto di un esempio tra i più famosi della lettura cosiddetta “ergodica”. Di cosa si tratta? Per provare a spiegarlo ho bisogno di fare una, temo, non breve digressione. L’Accademia della Crusca la definisce[4]: “tipo di letteratura che presenta una struttura narrativa e/o un’impaginazione non lineari e che, quindi, comporta un modo di fruizione in cui, diversamente dal solito, il lettore deve compiere lui stesso operazioni non convenzionali per ricostruire la trama e i significati del testo”. L’origine del termine non è chiara. Secondo alcuni deriva dalla “voce greca ergṓdēs, propriamente ‘difficile’. Una seconda ipotesi è che l’aggettivo derivi dal tedesco ergodish, a sua volta derivato del sostantivo femminile die Ergode, che indica un particolare tipo di sistema meccanico”. Quale attinenza abbia tale sistema con un libro non l’ho capito e ancor meno mi è chiaro il legame fra l’accezione del termine in letteratura e quella che ha in fisica, più precisamente in meccanica statistica[5]. Con l’acribia che è lecito attendersi da un’Accademia, la Crusca ci informa che in Italia, la prima attestazione del termine nell’accezione letteraria risale al 2001[6], anche se la prima citazione in assoluto del termine è del 1997 e si deve a  Espen J. Aarseth. Secondo costui la letteratura ergodica si caratterizza per gli “sforzi non superficiali [che] sono richiesti per permettere al lettore di ‘attraversare’ il testo”, contrariamente alla letteratura “non-ergodica, nella quale lo sforzo richiesto per la lettura del testo è superficiale, senza responsabilità extra-noematiche a carico del lettore, fatta eccezione (per esempio) per il movimento dell’occhio e l’occasionale o arbitrario voltare delle pagine”[7] (i corsivi sono miei). La cosa davvero curiosa, però, è che se cercate il termine “ergodico” sui principali dizionari, troverete solo il riferimento alla meccanica statistica e nessuno alla letteratura.

Al netto della dubbia etimologia e della rilevanza pressoché nulla dell’accezione letteraria del termine, la domanda che mi sono posto costantemente durante la lettura, specie nei punti più graficamente arzigogolati, è questa: quelle “operazioni non convenzionali” e quegli “sforzi non superficiali” che sono richiesti al lettore per “ricostruire la trama e i significati del testo” (ma anche per la sua semplice lettura, direi), aggiungono qualcosa al racconto e, soprattutto, senza questa sovrastruttura, cosa rimarrebbe del libro? Se alla seconda domanda non sono ancora riuscito a trovare una risposta, alla prima rispondo con un convinto “no”. Citando Aarseth, infatti, se per apprezzare la letteratura “non-ergodica” è richiesto al lettore uno sforzo “superficiale” e senza “responsabilità extra-noematiche”, è lecito presumere che da uno sforzo “non superficiale” e pregno di “responsabilità extra-noematiche”, il lettore debba trarre qualcosa di più. Ecco, caro Aarseth: cosa e dove sarebbe esattamente questo qualcosa? Personalmente non ho alcuna difficoltà a rincorrere il testo fra le pagine capovolgendo il libro o usando uno specchio per leggere parole stampate al contrario ma, alla fine, mi aspetto di  ricavarne qualcosa di più e di diverso della semplice decodifica di qualcosa che avrebbe potuto essere scritta in maniera “normale” senza perdere un grammo di significato. Perché altrimenti la definizione di letteratura “ergodica” si riduce, come peraltro affermato con apprezzabile onestà intellettuale anche da Danielewski in una recente intervista, a “un modo complicato per dire che un libro è complicato”[8] (a tal proposito, peraltro, colgo l’occasione per sottolineare che, a mio avviso, i paragoni fatti fra Casa di foglie e opere come Infinite Jest o Rayuela, sono affatto fuori luogo: quelli sono libri complessi (e belli), non semplicemente complicati. E nessuno si permetta di mettere in relazione l’uso delle note di Danielewski con quello di DFW, perché quanto a intelligenza, talento narrativo e, soprattutto, (auto)ironia, i due giocano su pianeti diversi).

Tornando al romanzo, a me pare che senza tutte le sue trine e merletti il risultato letterario sarebbe stato identico e l’opera avrebbe conservato intatti i suoi pochi pregi e i suoi più numerosi difetti. Anzi, confesso che spesso ho avuto l’impressione che quegli “sforzi non convenzionali” richiesti al lettore fossero meri espedienti strumentali per camuffare scorciatoie che hanno consentito a Danielewski di venire a capo di situazioni che, usando tecniche tradizionali, avrebbero richiesto un talento narrativo più spiccato del suo. In conclusione mi sembra che siamo di fronte a un romanzo abilmente costruito come una caccia al tesoro in cui, però, il tesoro consiste nella caccia stessa, un libro in cui il “come” è più importante del “cosa”, scritto con l’obiettivo di diventare un oggetto di culto, obiettivo peraltro raggiunto (almeno nel breve periodo). Riuscirà a passare l’arduo esame del tempo? Secondo me no, ma lascio volentieri ai posteri l’ardua sentenza. D’altronde Danielewski aveva provato ad avvertirmi con l’esergo: “questo non è per te”.

Aveva ragione.

E su questo non ho altro da dire.

Casa di foglie di  Mark Z. Danielewski
Titolo originale: House of Leaves
66THAND2ND, 2019 (2000)
Traduzione di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti
pp. 723
La mia valutazione su Goodreads:

 

[1] Se non vi state chiedendo come possa un cieco essere l’autore di un manoscritto, potete saltare a piè pari questa nota piuttosto pedante. Se invece ve lo state chiedendo, andate avanti. Non prendendo in considerazione le ipotesi secondo cui l’autore del saggio potrebbe non essere Zampanò, ma qualcun altro (Johnny? Pelafina?), la figura del vecchio cieco presenta alcune incongruenze, o almeno delle ambiguità. A pag. xxii è scritto che: “il poveretto non ci vedeva più dagli anni Cinquanta. Era cieco come una talpa”. Non sappiamo come Truant sia venuto a conoscenza di questi, e di molti altri, particolari. Tuttavia, visto che muore nel 1997, è lecito supporre che Zampanò sia stato cieco per quasi cinquant’anni: come può allora aver scritto La versione di Navidson? Per il tramite di terze persone, direte voi. E in effetti, sempre a pagina xxii scopriamo che: “nel corso degli anni in vecchio aveva accolto in casa diverse persone perché leggessero ad alta voce per lui durante il giorno”. Vabbè, c’è scritto “leggessero”, ma magari avrebbero potuto dargli una mano anche a scrivere. Però a pag. xxiii troviamo che: “Zampanò era in essenza […] un grafomane. Scribacchiò senza sosta fino alla morte. Perfino il giorno precedente alla sua mancata comparsa nel disordinato cortile, era impegnato a dettare lunghi paragrafi verbosi, correggere pagine scritte in precedenza e ricomporre un intero capitolo” [i corsivi sono miei]. Mi rendo conto che la mia attenzione a questi particolari è forse eccessiva, ma volevo sottolineare come, a mio parere, essendo evidentemente troppo impegnato a complicare la narrazione con i suoi giochetti, Danielewski non abbia sufficientemente curato alcuni particolari. Bisogna arrivare fino alla nota 226 a pagina 260 per trovare che: “Denise Neiman […] dice di aver lavorato su questa sezione del testo quando era ancora intatta. «[…] non aveva nessun bisogno della mia assistenza, tranne che per trascrivere quanto aveva in mente […]. Poi gliel’ho rilettoHa chiesto qualche correzione e alla fine siamo arrivati a una seconda bozza […]». Questo non dissipa proprio tutti i dubbi sull’origine del manoscritto, visto che oltretutto la cecità di Zampanò sembra avere un valore meramente simbolico (e pleonastico, direi), ma chiarisce un punto fondamentale: prima dell’ergodica viene la logica.
[2] Che il saggio di Zampanò sia con tutta probabilità un’opera di fantasia Truant lo scopre prestissimo, già a pag. xx: “…il progetto di Zampanò riguardava un film che neppure esiste. Potete controllare, io l’ho fatto, ma per quanto siano approfondite le vostre ricerche, non troverete traccia della Versione di Navidson in nessun cinema o videoteca. Inoltre gran parte di quello che hanno detto certi personaggi famosi in realtà è inventato. Ho provato a mettermi in contatto con tutti. Chi si è degnato di rispondermi ha dichiarato di non aver mai sentito parlare né di Will Navidson né tantomeno di Zampanò. Quanto ai libri citati nelle note, una buona parte è fittizia”. Questo rende ancor più incomprensibile il delirio paranoide che si scatena in Truant.
[3] Recentemente anche 66THAND2ND ha pubblicato le Lettere da Whalestoe, in cui la selezione già presente in Casa di foglie è arricchita da una introduzione e undici lettere inedite.
[4] Da www.accademiadellacrusca.it.
[5] ergòdico: agg. [comp. del gr. ἔργον «opera; energia» e ὁδός «via», con riferimento al «percorso» del punto che rappresenta un sistema di «energia» data] (pl. m. –ci). – In meccanica statistica, termine introdotto dal fisico L. Boltzmann (1844-1906) per qualificare i sistemi meccanici complessi (sistemi e.) in quanto dotati della presunta proprietà di assumere, nel corso della loro evoluzione spontanea, ogni stato dinamico microscopico (ossia ogni insieme di valori istantanei di posizione e di velocità delle particelle costituenti il sistema) compatibile con il loro stato macroscopico: in altre parole, secondo la cosiddetta ipotesi e., la traiettoria nello spazio delle fasi del punto rappresentativo di un sistema meccanico, vincolato a muoversi sulla superficie individuata dal valore costante dell’energia del sistema, finirebbe col passare prima o poi per ogni punto di tale superficie; la dimostrata falsità di tale ipotesi portò alla considerazione di sistemi quasie., caratterizzati dalla condizione, meno restrittiva, di passare comunque per stati arbitrariamente prossimi a ogni stato dinamico microscopico compatibile con la loro energia totale. La teoria e. è stata successivamente generalizzata e sviluppata nelle sue implicazioni matematiche, spec. nello studio dei processi stocastici come ricerca delle condizioni sotto le quali le medie aritmetiche, calcolate nel tempo, di una variabile aleatoria convergono in senso probabilistico a un valore determinato (da: www.treccani.it).
[6] “Per caratterizzare questa letteratura, vorrei riprendere la definizione di letteratura ergodica (ergon: lavoro, in greco), che Espen Aarseth trae dal campo della matematica, segnalando che questa letteratura non si limita agli ipertesti stricto sensu, ma comprende anche i generatori di testi e la poesia animata, dal momento che questi fanno ricorso, in un modo o in un altro, all’attività di un interattore”. Jean Clément, Elementi di poetica ipertestuale, in “Bollettino ’900”, n. 1, 2001.
[7] In: Cybertext – Perspectives on ergodic literature, 1997. Da www.librinews.it.
[8] Tiziana Lo Porto: “Il mio romanzo è una casa di carta”, Il Venerdì di Repubblica, 21 maggio 2021. Consultabile alla pagina https://www.66thand2nd.com/libri/395-lettere-da-whalestoe.asp.