“Notturno cileno” di Roberto Bolaño

In questo romanzo, breve ma di grande intensità emotiva e tensione ideale, Bolaño affida alla voce di Sebastián Urrutia Lacroix, un prelato dell’Opus Dei ormai sul letto di morte, il racconto della storia “di acciaio e di silenzio” del Cile di Pinochet. Scegliere come protagonista un uomo di Chiesa rappresenta certamente un preciso atto di accusa nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche, spettatrici silenti quando non complici del regime, ma l’obiettivo dell’Autore è molto più ambizioso di questo, tutto sommato, scontato regolamento di conti.

La innegabile e colpevole ambiguità della Chiesa è, infatti, solo il paradigma di un’ambiguità molto più diffusa, venefica e pervasiva, presente a tutti i livelli della società. Di questo don Sebastián sembra consapevole quando dice: “abbiamo l’obbligo morale di essere responsabili delle nostre azioni e anche delle nostre parole e perfino dei nostri silenzi, sì, dei nostri silenzi”. Ma quest’obbligo morale viene immediatamente mitigato da un dubbio: “può un uomo sapere, sempre, quello che è bene e quello che è male?”, per arrivare infine a una sbrigativa autoassoluzione: “i miei silenzi sono immacolati. Che sia chiaro. Ma soprattutto che sia chiaro a Dio”. Insomma i colpevoli, se ci sono, sono altri e stanno altrove.

Si tratta, però, di un’autoassoluzione tanto elementare nell’impianto quanto sterile negli effetti, visto che non riesce affatto a tacitare i demoni di don Sebastián che, anzi, si incarnano in un “giovane invecchiato che grida senza che nessuno lo ascolti”, una sorta di alter ego allucinatorio che gli chiede implacabilmente conto di quella “serie di equivoci” che è stata la sua vita, dei volti che ha “amato, odiato, invidiato, disprezzato”, di quelli che ha “protetto” e di quelli che ha “attaccato”.

Bolaño non veste qui i panni del censore, non affonda la lama del suo giudizio morale, che pure è netto, anche se rimane in secondo piano. Preferisce muoversi nello spazio, solo apparentemente neutro, che separa il pensiero dalla parola e dall’azione, quasi a volerci ricordare, ancora una volta, che nella stessa situazione, di fronte alla protervia, alla violenza e alle minacce, nessuno può sapere da che parte sarebbe stato. Forse anche noi, come tanti cileni in quegli anni e molti altri, prima e dopo di allora, ci saremmo limitati ad abitare quella vastissima zona d’ombra che separa le vittime dai carnefici, chiudendo gli occhi e tappandoci le orecchie, subito disposti a perdonare e a perdonarci tutto pur di dimenticare l’orrore e tornare a vivere.

È in questa sottolineatura della profonda ambivalenza etica delle omissioni e dei silenzi che sta, a mio avviso, il centro emotivo e pulsante del libro, perché è grazie all’ignavia di tanti don Sebastián che un manipolo di violenti poté, può e potrà, trasformare una intera nazione “nell’albero di Giuda, un albero spoglio, apparentemente morto, ma ancora ben radicato nella terra nera” una terra fertile ma abitata da vermi “lunghi quaranta centimetri”.

Con la sua inconfondibile scrittura, che esplora il confine in cui i contorni della realtà si slabbrano insensibilmente nelle nebbie del sogno, Bolaño ci accompagna in una discesa agli inferi che non ha nulla di catartico, per poi lasciarci soli e attoniti di fronte alla domanda: “c’è soluzione a questo?”. Che ognuno risponda come può.

E su questo non ho altro da dire.

 

#fallabreve: Confessioni di una maschera (cit.).

Notturno cileno di Roberto Bolaño
Titolo originale: Nocturno de Chile
Adelphi, 2016 (2000)
Traduzione di Ilide Carmignani
pp. 123
€ 15,00 (eBook € 7,99)

La mia valutazione su Goodreads:

Fonti iconografiche:
Per la prima immagine (da sinistra a destra): la Moneda, il palazzo presidenziale, durante i bombardamenti dell’11 settembre 1973. (La Tercera/Reuters/Contrasto); Roberto Bolaño (foto da: minimaetmoralia.it); l’interno della Moneda dopo i bombardamenti (AP/Lapresse).
Per la seconda immagine (da sinistra a destra): Augusto Pinochet e Salvador Allende (AFP/Getty Images); il corpo di Allende viene portato fuori dal palazzo presidenziale l’11 settembre 1973 (El Mercurio/AP/Lapresse); Pinochet e il ministro della difesa cileno Patricio Carvajal poche ore dopo la morte di Allende (AFP).
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