“Monsieur Proust” di Céleste Albaret

Tadié ha sicuramente ragione quando afferma che: “…nessuna biografia, nessun saggio critico è più commovente di Monsieur Proust…”[1]. È evidente che “commuovere” non dovrebbe essere l’obiettivo primario di una biografia (tantomeno di un saggio), ma al tempo stesso non si può non riconoscere che uno dei pregi principali di quest’opera stia proprio nella tenerezza, al limite della venerazione, con cui tratta del suo “oggetto”. Peraltro, quella di Céleste Albaret è una biografia davvero particolare, e non solo per la sua genesi[2], quanto perché può contare su un vantaggio affatto esclusivo rispetto a qualsiasi altra biografia proustiana: la testimonianza diretta di quanto in essa si racconta.

Qualcuno potrebbe obiettare che questo vantaggio sia, al tempo stesso, un limite, considerata la scarsa affidabilità della nostra memoria e la tendenza ad addomesticare i ricordi, quando non a crearli ex novo, limite che potrebbe essere magnificato proprio da quella “tenerezza”, cui sopra si accennava. Ma questo vale per pressoché qualsiasi fonte: pochi, infatti, sono così masochisti da non voler edulcorare almeno in parte, anche involontariamente, alcuni aspetti della propria immagine o di quella di qualcuno che si è amato (e viceversa, nel caso in cui non lo si sia amato). Qualcun altro, infine, potrebbe maliziosamente far notare che stiamo parlando dei ricordi di una ottuagenaria, raccolti e trascritti a distanza di mezzo secolo dai fatti. Qui, però, è lo stesso Belmont a rassicurarci sull’estrema lucidità di Céleste che, dal canto suo, sembra aver estremamente chiaro l’obiettivo che ha in mente:

Ma oggi, prima di lasciare a mia volta questo mondo, l’idea che possa rimanere un dubbio o una menzogna su tutto ciò che ho visto, e che è la verità, mi è divenuta a tal punto intollerabile che voglio dire, una volta per tutte, che le pagine che seguiranno sono l’esatta ricostruzione della mia memoria e che ho a tal punto riesaminato, controllato e riverificato i fatti da avere la certezza dell’assoluta fedeltà alla realtà di quel che accadde. È un testamento quello che sto scrivendo, non una testimonianza [corsivo mio].

Leggere Monsieur Proust, ci consente di sollevare il velo sugli ultimi anni della vita del Sommo, cruciali per la stesura della Recherche, che Céleste mostra non solo di aver letto con attenzione e, ancora una volta, amore, ma anche analizzato e compreso con acume e sensibilità non comuni. Colpiscono, in particolare, i riferimenti alla tecnica con cui Proust costruiva i suoi personaggi: più dei collage che delle “caricature” basate su un unico modello, come invece spesso si afferma.

Su questo argomento si è scritto molto, e io non ho nessuna intenzione di imitare i professori. Del resto, lui non ha mai fornito la chiave, né a me né a nessun altro. Se non l’ha fatto, non credo sia stato per malizia o per divertimento, per deliberata volontà o per il piacere di confondere le tracce: se non l’ha fatto è perché questo corrispondeva alla realtà della sua opera. Quel che possono dire è che tutte le chiavi che si son volute usare, dopo, non bastano ad aprire tutti i compartimenti segreti della scatola. Per ogni personaggio ne occorrerebbe un gran mazzo [corsivo mio].

Anche quelle che, a prima vista, possono sembrare omissioni, assumono tutt’altra veste. Mi riferisco, ad esempio, al tema dell’omosessualità o, come li chiama Céleste, agli “altri” amori. Al riguardo Albaret si limita a dire che nei suoi anni di servizio non vide, udì o intuì nulla che potesse confermare quanto “altri hanno presunto”: “su quanto è accaduto prima di me posso dunque soltanto dire quello che ne so nel senso appena espresso”. Nessuna reticenza o pruderie, dunque, ma anche nessun intento agiografico: “non vedo che cosa gli farei guadagnare a dar di lui l’idea d’un santarello”. D’altronde, che la sessualità di Proust fosse più cerebrale che fisica, più pensata che agita, lo confermano molte altre fonti.

Il racconto di quei nove anni passati al suo servizio è la testimonianza della profonda devozione di una donna semplice che, pure, seppe cogliere, amare e proteggere l’eccezionalità e il genio di quell’uomo così particolare. Per il semplice fatto di aver soddisfatto ogni sua richiesta ed esigenza, entrando quasi in simbiosi con quell’esistenza lunare, Céleste ha condiviso con Marcel Proust più tempo di chiunque altro. Colpisce, in conclusione, la consapevolezza di essere stata testimone diretta della genesi di un capolavoro della letteratura, genesi che richiese a Proust di annullare qualsiasi soluzione di continuità fra la propria vita e la Recherche: un annullamento che sembra trasmettersi anche a Céleste, che si mise consapevolmente e totalmente al servizio di Proust, e quindi della sua opera, opera che tutti e due sapevano sarebbe rimasta incompiuta:

Una notte mi dichiarò: “Vede, Céleste, io voglio che, nella letteratura, la mia opera rappresenti una cattedrale. Ecco perché non è mai conclusa.”

E su questo non ho altro da dire.

Monsieur Proust di Céleste Albaret
Titolo originale: Monsieur Proust
SE, 2004 (1973)
Traduzione di Augusto Donaudy
pp. 379
La mia valutazione su Goodreads:

[1] Jean-Yves Tadié: Vita di Marcel Proust, Mondadori 2002 (1996) p. 668.
[2] Il libro contiene la trascrizione di oltre settanta ore di registrazioni raccolte da Georges Belmont nell’arco di cinque mesi di conversazioni con Céleste (1891-1984), quando questa aveva già ottantadue anni ed erano passati oltre cinquant’anni dai fatti raccontati, che riguardano il periodo in cui la Albaret fu al servizio di Proust dal 1913 al 1922. L’elaborazione delle trascrizioni da parte di Belmont richiese altri otto mesi di lavoro.