Ma chi è Angelo Peri? – “Pietroburgo” di Andrej Belyj

Sinossi (dalle note di copertina): Pietroburgo, 1905. La città è sconvolta dalla tempesta sociale, si moltiplicano i comizi, gli scioperi, gli attentati. Il giovane Nikolaj Apollonovič, che si è incautamente legato a un gruppo rivoluzionario, entra in contatto con Dudkin, nevrotico terrorista nietzscheano, il quale gli affida una minuscola bomba. E il provocatore Lippančenko, doppiogiochista al servizio della polizia zarista e al contempo dei rivoluzionari, gli rivela qual è il suo compito: dovrà far saltare in aria il senatore Apollon Apollonovič, abietto campione dell’assurdità burocratica. Suo padre.

A cosa servono le classificazioni? È la domanda che mi sono posto mentre leggevo questo bellissimo libro. Perché se è innegabile l’utilità didascalica e didattica di quelle che potremmo chiamare macrocategorie, visto che consentono di essere ragionevolmente certi che quando parliamo di Illuminismo (o di Umanesimo, Rinascimento, Romanticismo e così via) intendiamo tutti, più o meno, la stessa cosa, il discorso cambia radicalmente di fronte al singolo artista. Specie se appartiene alla categoria dei fuoriclasse che, per definizione, sfuggono a qualsiasi criterio ordinatore e tassonomico. Uno come Laurence Sterne, ad esempio, come lo classifichiamo? Ma la lettura di Pietroburgo mi ha fatto riflettere anche sulla sottile, ma decisiva, differenza che separa il concetto di moderno da quello di contemporaneo. Per me moderno significa qualcosa (o qualcuno) in grado di esprimere lo “spirito del tempo” che sto vivendo; mentre contemporaneo, più semplicemente, è qualcosa (o qualcuno) che storicamente si sovrappone, anno più anno meno, all’arco temporale della mia esistenza. Le due caratteristiche non sempre coincidono, potendo trovarci di fronte opere contemporanee ma assolutamente aliene dallo Zeitgeist, oppure opere non contemporanee eppure assolutamente moderne.

Ho fatto questa lunga premessa non a caso, visto che, a mio avviso, Pietroburgo è l’opera di un vero fuoriclasse ed è di una modernità sorprendente, nonostante sia stata scritta più di un secolo fa. Infatti le vicende di Nikolaj Apollonovič Ableuchov e di suo padre, sullo sfondo della ribollente Pietroburgo del 1905, mi sono sembrate, nel contenuto e nello stile, così significativamente descrittive della confusione, dell’indeterminatezza e della spossatezza etica che ci circondano, in una parola così moderne, che il confronto con la fiacchezza compiaciuta e l’ombelichismo esangue di tanti autori contemporanei, mi ha lasciato sbigottito.

Lo si capisce subito che ci si trova di fronte a un’opera fuori scala, sin dall’incedere pirotecnico e febbrile, nervoso e tragicomico del Prologo. E più si va avanti, più diventa difficile trovare un termine di riferimento, una casella dove racchiuderlo, un’etichetta da appiccicargli addosso a questo Belyj che, considerato un esponente del simbolismo, secondo me è molto di più, di diverso, di altro, anzi di altrove: un fuoriclasse, appunto. La storia procede come un turbine, con uno stile ellittico, allusivo, a tratti surreale, e con un ritmo spezzato, frammentario, incurante delle classiche coordinate spaziali e temporali. La scrittura di Belyj è sfolgorante: un caleidoscopio multisensoriale in cui anche gli odori, i colori, i rumori prendono vita e diventano veri e propri personaggi. Perfino i palazzi e i monumenti di Pietroburgo, più che delle quinte, sembrano fantasmi dotati di una loro vita, per non parlare delle canzoni popolari, delle filastrocche, dei versi che punteggiano il narrare. In un vortice di sinestesie e metamorfosi, la stessa fisionomia dei personaggi muta al mutare del loro sentire, dell’alternanza di bene e male, di infatuazione e odio, di frenesia e sfinimento. La “bomba” su cui verte tutto l’intreccio, è la metafora di un mondo i cui ingranaggi si muovono indipendentemente da qualsiasi volontà individuale (o collettiva), e che si fermeranno solo con la deflagrazione finale, esito tanto inevitabile quanto insensato. Il lettore ha l’impressione costante che basterebbe una parola per inceppare quel meccanismo, per silenziare quell’inesorabile ticchettio, ma nessuno pronuncerà mai quella parola. Perché? Non è dato sapere. Si procede con un frenetico montaggio cinematografico, in un contrappunto continuo fra realtà e delirio. Una storia, peraltro, in cui succede pochissimo, in cui tutto è in potenza, e dove un senso crescente di assurdità e di disgregazione pervade le atmosfere, fino a risolversi nell’allucinazione, nella frantumazione, nella totale perdita di senso. In questo libro la realtà fattuale sembra arretrare progressivamente davanti all’incubo, ma è solo un’illusione. Come quando il mare, prima di scatenare la furia distruttiva dello tsunami, ritira le sue acque.

Pietroburgo fa parte a pieno titolo di quella letteratura interessata a capire “what it is to be a fucking human being”[1] che, a mio modesto parere, dovrebbe costituire l’imperativo etico di ogni scrittore. È uno di quei libri che fanno fare al lettore un salto di qualità, lo costringono a rivedere le normali scale di valore, a resettare i propri parametri di giudizio. Insomma un capolavoro che, pubblicato per la prima volta in Italia da Einaudi nel 1961, viene oggi riproposto per i tipi di Adelphi, conservando la splendida traduzione di Angelo Maria Ripellino, a cui si deve un’altrettanto splendida prefazione, anzi un saggio introduttivo di altissima qualità.

Sarebbe bello chiudere qui, ma non posso farlo, anche a costo di espormi a una figuraccia. Infatti c’è una cosa che proprio non sono riuscito a capire. Ho fatto ricerche su internet, enciclopedie, dizionari, ma non ho trovato risposta. Per questo chiedo a voi, miei affezionatissimi trentatré lettori: qualcuno sa dirmi chi è Angelo Peri?
E su questo non ho altro da dire.

E su questo non ho altro da dire.

#fallabreve: E gli orinali messi sotto i letti per la notte e un film di Eisenstein sulla rivoluzione…
“Pietroburgo” di Andrej Belyj
Adelphi, 2014 (1922)
Traduzione di Angelo Maria Ripellino
pp. 384

[1] Citazione di Lui in persona che, oltre a costituire il nuovo esergo del blog, rappresenta il criterio in base al quale separo il grano dal loglioa.
a E siamo arrivati alla citazione dei Vangeli. Quando salirò su un monte per scrivere i post su delle tavole di pietra, chiamate qualcuno bravo, per favore.
[2] Dopo la pubblicazione del post, un tweet di @EnkvonderBurg, che ringrazio, ha chiarito il mistero. Lo riporto integralmente: «Chi è l’Angelo Peri che compare, per esempio, nel secondo capitolo, al paragrafo I visitatori di Sof’ja Petrovna e in Madame Farnois (cap. IV) di Pietroburgo? È una sorta di crasi, una fusione ideata ironicamente dalla coscienza estetica di Belyj ispirandosi al poema di Žukovskj Peri i Angelo (Peri e l’angelo) del 1821; a sua volta una traduzione della seconda parte di Lalla Rookh (1817), una lunga opera poetica di Thomas Moore. Peri è poi il genio malevolo, l’elfo o uno dei demoni femminili dei quali si serve Ahriman per creare eclissi, impedire la pioggia, far seccare i campi di grano o apparire una cometa. Ma in ambito persiano è pure un essere grazioso, simile a una fata e, per la bellezza, a un angelo. Questo epiteto era usato nell’800, in Russia così come in Inghilterra, per sottolineare l’eleganza e l’avvenenza di una ragazza dell’alta società. Belyj se ne serve come attributo, per mettere in rilievo la leggiadria della Petrovna, la stessa che a pagina 133 legge adagiata su un trapunto sofà L’uomo e i suoi corpi di Henri Besançon (anche il nome di questo autore è dato dall’unione grottesca di Henri Bergson e Annie Besant, la scrittrice e teosofa del libro Man and His Bodies). L’epiteto “l’Angelo Peri” è dunque un fiore linguistico pensato da Belyj per dare luce alla figura di Sof’ja: “l’Angelo Peri era rimasta sola; il marito non c’era […], L’Angelo svolazzava in kimono tra i vasi di crisantemi e il monte Fuji-yama…” (pag. 133)».