“Lincoln nel Bardo” di George Saunders

Partendo da un avvenimento storico, la morte di Willie, il figlio undicenne di Abraham Lincoln, Saunders sviluppa una riflessione sulla vita e su quello che c’è dopo. Prendendo a prestito il Bardo dal Libro tibetano dei morti, trasforma quello che nella dottrina buddista è un luogo intermedio tra la morte e la rinascita in un limbo inquietante, abitato da anime che, per qualche motivo, rifiutano l’idea di appartenere a dei morti e non intendono lasciare questo mondo. Accanto a questa linea narrativa finzionale, Saunders ne compone una seconda, costruita con un collage narrativo di citazioni tratte da una eterogenea bibliografia storiografica e memorialistica.

Al calar della notte il Bardo, se così si può dire, prende vita, con le anime che si levano dai sepolcri e iniziano a vagare per il cimitero. Ed è qui che troviamo Willie, che è morto da poco e non vuole abbandonare quel luogo perché è convinto che il padre stia per andare a prenderlo per ricondurlo a casa, ignaro del fatto che, per lui, restare in quella strana dimensione è piuttosto pericoloso:

…l’architetto di questo posto ha ritenuto, per ragioni a noi ignote, che essere un bambino e amare la vita tanto da decidere di rimanere qui, in questo posto, sia un peccato terribile, degno della più severa punizione.

Il Bardo di Saunders, insomma, non è un luogo neutro o idilliaco, non è “un posto pieno di luce libero dalle sofferenze”. L’unico a esserne consapevole è il reverendo Everly Thomas, che non solo sa di essere morto, ma sa anche che, una volta lasciato il Bardo, saranno tutti sottoposti a un giudizio che ne definirà il destino eterno. Lo sa perché, poco prima che toccasse a lui, è riuscito a fuggire da quel tribunale, anche se solo temporaneamente e con l’ammonimento di non rivelare ad alcuno quanto vide, altrimenti  “al tuo ritorno sarà peggio”.

Restando qui, non fate altro che procrastinare. […] non potrete restare qui per sempre. Nessuno di noi potrà. La nostra è una ribellione alla volontà del Signore che alla fine verrà stroncata.

È questo il punto in cui la costruzione di Saunders, qui all’esordio nella forma romanzo, vacilla. Non solo perché, senza una reale necessità narrativa, squarcia il velo sul destino ultimo delle anime, ma soprattutto perché colora il racconto di un didascalismo quasi confessionale, utilizzando immagini e atmosfere che sembrano tratte da un vecchio manuale di catechismo. Un vero peccato, perché la forza del romanzo, il suo elemento di novità, vive proprio nell’idea di una dimensione spazio-temporale misteriosa e, soprattutto, laica: a patto, ovviamente, di accettare, l’esistenza di un’anima in grado di sopravvivere al corpo.

In sintesi: un libro bello, molto bello, andato davvero vicino all’essere bellissimo.

E su questo non ho altro da dire.

Lincoln nel Bardo di George Saunders
Titolo originale: Lincoln in the Bardo
Feltrinelli, 2017 (2017)
Traduzione di Cristiana Mennella
pp. 347
La mia valutazione su Goodreads: