“L’amante di Wittgenstein” di David Markson

La prima volta che ho sentito parlare de L’amante di Wittgenstein è stato un paio di anni fa, in un ponderoso saggio di DFW che ne tesseva lodi sperticate1. Non contento di averlo analizzato per più di quaranta pagine, dopo nove anni DFW tornò a scriverne, in maniera molto più sintetica, definendolo: “più o meno il punto più alto della narrativa sperimentale di questo paese”2.

Non conosco abbastanza la narrativa sperimentale in genere, e tantomeno quella statunitense, per poter confermare questo lapidario giudizio, ma posso dire con certezza che LadW è uno dei libri più belli che ho letto quest’anno, anzi uno dei più belli da molti anni a questa parte, anche se venne rifiutato quarantaquattro volte prima di essere pubblicato nel 1988. Questo non ne fa un caso unico nella storia della letteratura, anzi della miopia editoriale, penso però che le ragioni di tali difficoltà “commerciali” siano stavolta almeno in parte attribuibili al fatto che LadW è un libro davvero particolare, niente affatto facile, uno di quelli che può piacere alla follia o risultare sommamente insopportabile per gli stessi identici motivi. Quali? Ne elenco alcuni.

È privo di un orizzonte temporale e spaziale definito, ambientato com’è in un mondo sfocato, mobile, cangiante.

A ben vedere, anzi, è privo di una trama vera e propria.

Non sappiamo se quanto ci racconta Kate, la voce narrante, sia reale o meno, e non sappiamo neanche chi sia davvero Kate: è una pazza? O è davvero l’ultima persona rimasta al mondo? E, se è così, a chi e perché sta battendo a macchina le pagine che stiamo leggendo?

Il romanzo ha una “struttura che sta a metà fra la barzelletta sconclusionata e un’allegoria mortalmente seria” ed usa fino allo sfinimento “dispositivi come la ripetizione, la ricorsività ossessiva, l’associazione più o meno libera”3.

È “astratto, erudito e avanguardistico”4, composto da periodi perlopiù brevissimi,  ed è una sorta di “romanzo di fantascienza filosofica”5 dove si prova a descrivere “come sarebbe vivere nel genere di universo descritto dall’atomismo logico [di Wittgenstein]”6.

E questi sono solo alcuni dei buoni motivi per adorare o per detestare LadW.

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Proverò ora a spiegare perchè a me è piaciuto così tanto.

Pur cercando di resistere alla tentazione di saccheggiare ulteriormente il meraviglioso saggio di DFW7, la mia parzialissima e dilettantesca analisi non può fare a meno di partire da due suoi spunti critici fondamentali. Il primo individua nel romanzo l’ipostasi narrativa di un mondo che parte “con l’essere […] il paradiso della logica” e finisce invece “per essere […] un inferno metafisico”8. Il secondo fa in qualche modo da corollario a quello, e individua nel percorso di interiorizzazione della possibilità che i fatti siano “prodotti della stessa testa che li approccia come fatti esterni […], una strada che passa per lo scetticismo e il solipsismo per poi condurre direttamente alla pazzia”9. Sono due idee molto forti e convincenti, esposte peraltro in maniera magistrale, eppure ritengo che non esauriscano del tutto le possibilità di interpretazione del romanzo: si parva licet, ovviamente.

A me sembra, infatti, che vi sia almeno un terzo elemento da considerare, e cioè il fatto che in realtà le proposizioni atomiche wittgensteiniane vengano utilizzate da Markson non solo e non tanto per descrivere quanto più fedelmente possibile il mondo esterno a Kate, quanto piuttosto il suo mondo interiore: cioè per rispecchiare e raffigurare il pensiero nel momento stesso in cui pensa, anzi si pensa.

Non si tratta di una novità in senso assoluto, ma ottenere questo risultato utilizzando gli strumenti della ferrea logica wittgensteiniana, significa rifuggire programmaticamente da qualsiasi autismo narrativo derivante da uno sperimentalismo estremo, penso al Joyce di Finnegans Wake, ad esempio, perchè qui è mandatorio mantenere la sensatezza delle singole proposizioni. Delle singole proposizioni, sottolineo, non delle reciproche relazioni logiche (“e tuttavia non sto in alcun modo insinuando che in tali collegamenti risieda un qualche significato”). È proprio questa ricerca di senso esclusivamente a livello atomistico a spiegare e rendere possibili le continue contraddizioni in cui cade il racconto frammentario di Kate,  contraddizioni solo apparenti, in quanto inevitabile conseguenza dei limiti del linguaggio quando cerca di rispecchiare il pensiero in divenire (“in questo senso il linguaggio è spesso impreciso, ho scoperto”), rincorrendone i margini sfrangiati che sfumano in nuovi pensieri, in una catena che non conosce soluzione di continuità (“un romanzo del genere non può avere fine”).

Di certo non si può scrivere una frase in cui si dice che non si sta pensando a qualcosa senza pensare proprio alla cosa a cui si dice di non stare pensando.

Questo tentativo di esprimere con il linguaggio la complessità neuronale del cervello e delle sue funzioni superiori condanna al fallimento e a una sorta di afasia sociale (“non si può esprimere tutto ciò che esiste nella propria testa. Né esserne consapevole, ovviamente”), come se il pensiero esaurisse tutte le proprie energie nel tentativo di farsi parola, in una ironica inversione della successione biblica fra logos e creazione. E questo iato irriducibile fra il processo sincronico (e almeno inizialmente inconscio) del pensare/pensarsi e la sua traduzione diacronica (e conscia) in parole scritte corrisponde a quella metaforica “grande bottiglia” in cui, secondo DFW,  Kate mette la sua lettera, il suo “lungo messaggio”10.

Se questa ambizione ciclopica e utopistica a un tempo sia causa o conseguenza della follia di Kate non è dato sapere e, pur non essendo né uno scrittore né un genio, come invece DFW, non lo condivido quando afferma che “il tentativo di dare alla solitudine di Kate una particolare motivazione mediante un tradizionale trauma femminile”11 rappresenti un limite del romanzo, perchè ritengo che i riferimenti al figlio, al marito, e agli amanti, siano soltanto proposizioni atomiche la cui sensatezza è esclusivamente interna, come ho sopra argomentato (leggete il libro se volete capire meglio di cosa si stia parlando).

In conclusione, LadW è un libro stimolante come pochi, meraviglioso, un piccolo capolavoro che però non consiglio a nessuno. Perché se poi non dovesse piacervi, sarei costretto a pensare che siete delle brutte persone.

E su questo non ho altro da dire.

 

#fallabreve: La mente è tutto ciò che pensa.

 

1 DFW: Il plenum vuoto: Wittgenstein’s Mistress di David Markson, in Di carne e di nulla, Einaudi (2013), pag. 124. Il titolo originale del saggio è The Empty Plenum: David Markson’s Wittgenstein’s Mistress, ed è uscito per la prima volta nel 1990 sulla Review of Contemporary Fiction.
2 Sulla rivista Salon dal titolo: “Non pervenuti: cinque romanzi americani spaventosamente sottovalutati > 1960”. Anche questo articolo è contenuto nella raccolta Di carne e di nulla, Einaudi (2013), pag. 27.
3 DFW: “La pienezza vuota”, Edizioni Clichy (2016), pagg. 280 e 281.
4 DFW: “Non pervenuti: cinque romanzi americani spaventosamente sottovalutati > 1960”, Di carne e di nulla, Einaudi (2013), pag. 28.
5 DFW: “La pienezza vuota”, Edizioni Clichy (2016), pag. 287.
6 DFW: “Non pervenuti: cinque romanzi americani spaventosamente sottovalutati > 1960”, Di carne e di nulla, Einaudi (2013), pag. 28
7 Che qui accompagna il romanzo di Markson nella nuova traduzione di Martina Testa.
8 DFW: “La pienezza vuota”, Edizioni Clichy (2016), pag. 287.
9 Ibidem, pag. 294.
10 Ibidem, pag. 282.
11 Ibidem, pag. 308.

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Sinossi
L’amante di Wittgenstein è un romanzo come mai ne sono stati scritti. È la storia di una donna di nome Kate, convinta – e che incredibilmente riuscirà a convincere anche il lettore – di essere l’unica anima viva rimasta al mondo. Si direbbe pazza. Eppure la sua figura è talmente ammaliante, la sua voce così arguta e seducente, che non si può fare a meno di seguirla, ipnotizzati, mentre riversa il bagaglio intellettuale di una vita in una serie di meditazioni irriverenti su qualsiasi cosa e chiunque, da Brahms al sesso, da Heidegger a Elena di Troia. E mentre la ascoltiamo contemplare gli aspetti del tormentato passato che l’ha portata alla situazione presente, il suo dramma diventa uno dei pochi racconti follemente originali del nostro tempo, nonché metafora della solitudine esistenziale e dell’incomunicabilità del reale attraverso il linguaggio.

L’amante di Wittgenstein di David Markson
Titolo originale: Wittgenstein’s Mistress
Edizioni Clichy, 2016 (1988)

Traduzione di Sara Reggiani
pp. 316
€ 15,00 (eBook non disponibile)

Fonti iconografiche:
Da sinistra a destra: David Marksn (
Johanna Markson photo, by Sleepyrobot at en.wikipedia, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15210244); Ritratto di Ludwig Wittgenstein di Konrad Bayer (da www.konradbayer.de); David Foster Wallace (AFP da http://24ilmagazine.ilsole24ore.com).
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