“La storia di Lucy Gault” di William Trevor

Sinossi (dalle note di copertina): Irlanda, 1921. Alla vigilia dell’indipendenza, nel paese le manifestazioni antibritanniche si fanno sempre più pericolose. Per questo il capitano Gault e la moglie Heloise si rassegnano a lasciare l’Irlanda e riparare in Inghilterra, patria della donna. La decisione è presa, ma nessuno chiede il parere della piccola Lucy. La bimba non ha alcuna intenzione di lasciare per sempre tutto quello che ama. Così decide di scappare di casa, per far cambiare idea al papà e alla mamma. La fuga doveva durare soltanto qualche giorno, ma per una serie di coincidenze niente va come previsto e il destino della famiglia Gault cambia per sempre, prendendo una piega drammatica. Dopo, nulla sarà più come prima, e col passare degli anni il fardello di rimorsi inespressi e affetti negati si farà sempre più pesante, finché il tempo, alla fine, non porterà Lucy ad accettare con semplicità ciò che ogni giorno può offrire: serenamente, nell’impossibilità di decifrare il senso della propria storia.

 

È la notte del 21 giugno del 1921, l’ultimo e più sanguinoso anno della guerra d’indipendenza irlandese, e siamo nella contea di Cork, passata alla storia come la Rebel County. Il capitano Everard Gault ferisce involontariamente Horahan, un ragazzo che, assieme a due complici, voleva dar fuoco a Lahardane, la casa dove il militare abita con la moglie Heloise e la figlia Lucy. Le conseguenze di quella notte determineranno il destino di tutti loro, in un ampio arco temporale che arriva quasi ai nostri giorni, quando l’Irlanda è diventata una meta turistica che attira “gente da tutto il mondo, viaggiatori come mai era capitato” e, nell’immaginaria città di Enniseala, “la gente cammina per strada parlando al telefono”.

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William Trevor in un disegno di Joe Ciardiello

È una storia di colpe e di espiazioni quella che ci racconta Trevor, che colpisce il lettore per l’estrema sproporzione fra le prime e le seconde, e dove una incomunicabilità quasi programmatica cristallizza i rapporti umani, scavando vuoti che sono invasi da un dolore che appare inemendabile. l’Autore sembra infatti assolutamente determinato a rifuggire qualsiasi possibilità di riscatto per i suoi personaggi, anche a costo di condannarli a una certa mancanza di profondità. D’altronde ritiene, à la Tolstoj, che “la disgrazia plasma la storia che viene raccontata ed è il motivo della sua esistenza”. Così, fra decisioni avventate, se non del tutto sbagliate, coincidenze nefaste, silenzi ed equivoci, si consuma la vita di Hoharan, che alla fine viene rinchiuso in un manicomio; quella del capitano e di sua moglie, logorati in un esangue rapporto di rassegnata devozione reciproca; e soprattutto quella di Lucy che, sull’altare di un distorto senso di giustizia cosmica, si priva anche dell’unica possibilità che le si presenta di uscire dalle mura asfittiche di Lahardane quando, del tutto fortuitamente, incontra il malcapitato Ralph. È proprio la storia d’amore fra i due che mi sembra paradigmatica di un libro in cui, in ossequio alla legge di Murphy: “se qualcosa può andar male, lo farà”. Nonostante l’amore dichiarato e reciproco, infatti, Lucy rifiuta Ralph, “convinta di non avere il diritto di amare prima di sapersi perdonata”. Il ragazzo, disperato, va in guerra, e allora Lucy fa una specie di voto: “se Ralph fosse tornato, sarebbe andata da lui appena ricevuta la notizia”. Ma quando rientra in patria, “la promessa che Lucy aveva fatto a se stessa”, prima vacilla e poi viene annullata. Neanche l’inaspettato ritorno a casa del capitano riesce a imprimere alla storia una svolta positiva, perchè ormai Ralph si è sposato, avendo “rinunciato all’impossibile” e, alla richiesta di Lucy di divorziare, visto che “il matrimonio non era più per sempre” e che “anche in Irlanda si poteva sciogliere”, risponde saggiamente: “le cose sono andate così. […] Non è colpa di nessuno”. Le recriminazioni del tutto irrazionali di Lucy nei confronti del padre, reo di essere riapparso troppo tardi, rendono piuttosto difficile la convivenza fra i due che, solo dopo parecchi assestamenti, riusciranno a raggiungere “un equilibrio senza pretese”, che durerà sino alla morte del capitano. Il romanzo si chiude con Lucy che, al termine della sua vita, è riuscita ad accettare il suo destino senza rimpianti né amarezze: “quel che è successo è successo, e basta. […] invece del nulla, c’è quello che c’è”.

Un libro gradevole da leggere, semplice nel suo sviluppo, rassicurante nella prevedibilità del suo incedere e con un finale di serena (ma non per questo meno passiva e ambigua) accettazione del proprio destino. Un intreccio che, nonostante il drammatico incipit, lascia ben presto sullo sfondo gli avvenimenti storici, e si sviluppa attorno al centro di gravità rappresentato da Lahardane, dove Lucy passerà tutta la sua vita e dove l’Autore riconduce le altre due linee narrative del romanzo: la prima che racconta il dolente esilio volontario dei genitori di Lucy in giro per l’Europa fino alla morte di Heloise e l’altra, più marginale, che vede Horahan nel suo sprofondare nella follia. In sintesi: se vi piacciono i romanzi di impianto classico, pieni di dolore e di occasioni perdute, con una bella storia d’amore travagliata e con personaggi monolitici nel perseguire la propria ed altrui infelicità, insomma i “drammoni”, questo è il libro che fa per voi.

E su questo non ho altro da dire.

 

copertina#fallabreve: Talvolta sono le colpe dei figli a ricadere sui figli.
“La storia di Lucy Gault” di William Trevor
Titolo originale: The Story of Lucy Gault
Guanda, 2006 (2002)
Traduzione di Laura Pignatti
pp. 267
€ 8,00 (eBook € 5,99)