“Io non mi chiamo Miriam” di Majgull Axelsson

Quando si scrive un libro, soprattutto quando si aspiri a scriverne uno “bello”, non penso sia sufficiente avere un’idea originale o scegliere un tema “importante”. Quell’idea e quel tema, infatti, devono essere sviluppati con una scrittura di qualità adeguata e, soprattutto, prestando grande attenzione all’equilibrio strutturale. Questo romanzo, se pure riesce a  rispettare il primo requisito (idea/tema), mi sembra inizi ad arrancare già sul secondo (qualità della scrittura), per poi franare  miseramente sul terzo (equilibrio strutturale).

Infatti se l’idea di costruire il romanzo a partire dalla persecuzione nazista dei rom rappresenta uno spunto sicuramente interessante, la scelta di esplorare quasi esclusivamente le cause del silenzio di Miriam piuttosto che le conseguenze familiari del disvelamento della verità sulle proprie origini, ritengo sia espressione dei limiti della scrittura della Axelsson, che non mi pare in grado di andare oltre una dimensione meramente descrittiva (verrebbe quasi da dire “giornalistica”), col risultato di produrre l’ennesima oleografia dell’orrore, per di più ampiamente intrisa di sentimentalismo a buon mercato.

Eppure, nonostante questi evidenti limiti, il libro sarebbe stato comunque migliore se solo si fosse prestata maggiore attenzione all’equilibrio strutturale, con un sostanzioso taglio del numero di pagine. Invece anche le scene più interessanti e promettenti dal punto di vista narrativo (come il pranzo/regolamento di conti in occasione del compleanno di Miriam) risultano annacquate, tanto ricche di dettagli quanto, paradossalmente, sfuocate dal punto di vista emotivo, riducendo la stessa protagonista a una sorta di (piuttosto banale) epitome della vittima. Per tacere dell’uso dei flashback, controproducente non tanto perché complichi  particolarmente la lettura, quanto per la loro eccessiva numerosità e lunghezza e, soprattutto, per il fatto che, in realtà, si tratta prevalentemente di ricordi che Miriam rivive solo nella sua mente, senza rivelarli a nessuno, destinati pertanto a morire con lei. Anche il tema della incomunicabilità come meccanismo di autodifesa familiare per conservare le rassicuranti apparenze piccolo borghesi e la denuncia del perbenismo della società svedese e del suo strisciante razzismo, appaiono fin troppo scontati per essere qui ulteriormente sottolineati.

In sintesi un libro discreto ma, di fatto, un’occasione perduta.

E su questo non ho altro da dire1.

 

1 A parte segnalare all’editore che, contrariamente a quanto riportato almeno in tre occasioni (se non ho contato male), i cappelli mi risulta possano portarsi sulle “ventitré”, non sulle “trentatré”.

 

#fallabreve: Silenzio: parla Miriam. Forse.

Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson
Titolo originale: Jag heter inte Miriam
Iperborea, 2016 (2014)
Traduzione di Laura Cangemi
pp.562
€ 19,50 (eBook € 9,99)

La mia valutazione su Goodreads:

 

 

Fonti iconografiche:
Nell’immagine Majgull Axelsson in una foto tratta dal sito www.sverigeradio.se.
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