Inseparabili – “Cassandra al matrimonio” di Dorothy Baker

Sinossi (dalle note di copertina): È un’estate dei primi anni Sessanta e Cassandra Edwards è in viaggio verso il ranch di famiglia. Partita da Berkeley, sta andando al matrimonio della sorella gemella, Judith, ma non sa come comportarsi perché non ha proprio voglia di conoscere il cognato, né di gioire dell’evento. Cosa succede nel cuore di un fratello gemello quando l’altra metà decide di andare via, di iniziare una vita propria da condividere con un estraneo? Accade di arrivare nella casa paterna e di aver voglia di tuffarsi subito in piscina, dove la testa si libera dai pensieri e nell’acqua ci si dimentica quasi di essere mai nati; di stringere tra le braccia la nonna, ancora affilata nei giudizi eppure così spudoratamente di parte nei confronti delle nipoti; accade poi di parlare con il proprio padre, in un’infilata di brandy che aiuterà a sfogare la propria tristezza e le paure. La casa degli Edwards è un piccolo mondo distante, e fiero di esserlo, dalla società americana degli anni Sessanta; è un ambiente colto e progressista dove il capofamiglia è un professore di filosofia in pensione le cui figlie ricordano con grande fierezza l’educazione libera e tesa alla curiosità che gli ha impartito; ed è una casa dove manca una madre da qualche anno. Il weekend che accompagna il racconto di Cassandra al matrimonio è quasi lo scampolo di una storia familiare idilliaca, l’ultimo colpo d’occhio di una giovane donna che sta per volgere lo sguardo altrove.

È un libro strano questo di Dorothy Baker che, grazie a Fazi, arriva in Italia ad oltre quarant’anni dalla sua pubblicazione. Dico strano, perché a leggere le note di copertina (“storia familiare idilliaca”) o alcuni commenti in rete che parlano di “commedia agrodolce” e di “commedia nera sul matrimonio”, non mi sarei aspettato di trovarmi di fronte il diario cupo e, a tratti, disturbante di un profondo disagio psichico, anzi di una vera malattia psichiatrica (non a caso per il titolo del post ho citato il film di David Cronenberg).
La ventiquattrenne Cassandra è una ragazza dalla personalità ambigua (anche sessualmente), ed è manipolatrice e capricciosa. Ha un rapporto irrisolto con la madre, morta di cancro pochi anni prima, aggravato dall’aver deciso di fare il suo stesso mestiere, la scrittrice, una scelta che ha innescato una specie di blocco creativo legato alla “paura del confronto. E di essere all’altezza, o di non esserlo; o di approfittarne”. Come se non bastasse non riesce ad affrontare in maniera serena ed equilibrata i distacchi emotivi che comporta il passaggio all’età adulta.
Il palcoscenico della vicenda è la villa degli Edwards, una ricca famiglia americana dalle Cassandraidee insolitamente liberali per i tempi, dove Cassandra torna per assistere al matrimonio di Judith, la sua gemella (identica) più giovane di undici minuti. Una famiglia dalle dinamiche piuttosto particolari, con una nonna, una mamma e un papà che amano le due sorelle, ma lo fanno “ferocemente in tre modi diversi” e in cui le tradizioni pur tendendo “a essere anticonformiste”, non sono per questo “meno rigide e vincolanti” delle altre.
In letteratura (intendo quella medica), è ben descritta la difficoltà che possono incontrare i gemelli identici nell’evoluzione dall’infanzia all’adolescenza, e da questa all’età adulta. Fortunatamente, nella maggior parte dei casi, i due fratelli raggiungono un equilibrio fra la loro condizione biologica del tutto peculiare e la necessità di affermarsi individualmente e autonomamente. Purtroppo non è quanto accade a Cassandra che dice: “è questo che siamo noi due – un essere unico, una struttura, un insieme-, che è completo in se stesso” (il corsivo è mio). Anzi, è sicura di essere stata “invitata al matrimonio perché potevo ancora impedirlo”, se “non volevo ritrovarmi a essere soltanto la metà di quello che avrei dovuto essere per il resto della mia vita”. Incapace di leggere la realtà se non attraverso la lente deformata e deformante della sua mente malata, Cassandra è convinta che i suoi pensieri siano gli stessi di Judith, arrivando a sostituire la prima persona singolare con quella plurale anche nei suoi monologhi interiori: “Entrambe ci eravamo sforzate di prendere due strade separate, di avere punti di vista autonomi, amici diversi e gusti personali. Avevamo cercato in tutti i modi di staccarci l’una dall’altra e adesso ci ritrovavamo esauste e disgustate”. Peccato, però, che Judith non sia affatto né esausta né disgustata all’idea di separarsi dalla sorella, e che anzi sia fuggita a New York, innamorandosi di un giovane medico che, contrariamente a quanto era accaduto a lei, “non aveva avuto una famiglia, e probabilmente era per questo che era venuto su così bene”. Il dramma del distacco fra le due gemelle, peraltro, è solo uno dei temi “scottanti” trattati dalla Baker. Cassandra, infatti, è innamorata di una donna che, tanto per complicare ulteriormente le cose, è anche la sua analista, e il suo attaccamento per Judith è così morboso da assumere connotati quasi incestuosi.
Anche l’utilizzo ripetuto da parte dell’Autrice dell’immagine del ponte, sembra rafforzare la sensazione che il romanzo sia tutt’altro che una semplice commedia sul tema del matrimonio. Il ponte di cui parlo non è solo quello reale, il Golden Gate, che apre e chiude simbolicamente il romanzo ed è utilizzato per l’ennesimo ricatto emotivo quando, a una domanda di Judith sulla bravura della sua analista, Cassandra risponde: “almeno mi ha impedito di buttarmi dal ponte, che è già qualcosa”. È anche la metafora del passaggio da una fase della vita ad un’altra e l’epitome definitiva della radicale diversità fra le due gemelle, in barba al patrimonio genetico identico. Illuminante a tal proposito è quello che Cassandra dice alla sua terapeuta: “Essere come noi non è facile […] si tratta di impegnarsi incessantemente per riuscire a essere il più diverse possibile: perché, affinché ci possa essere un ponte, prima deve esserci uno spazio da attraversare. E il vero progetto è il ponte”. Eccola qui la differenza, irriducibile e drammatica, fra le due sorelle: per Cassandra il progetto è il ponte, per Judith quel che c’è al di là di esso.
Non sapremo mai se il “sabotaggio” messo in atto da Cassandra sia da attribuire al suo disagio psicologico o al semplice desiderio di fare un dispetto alla sorella: temo che per lei le due cose più o meno coinciderebbero, a dimostrazione ultima della sua malattia. E anche l’augurio con cui saluta Judith al termine della cerimonia, ha un che di sinistro: “sei una bellissima sposa […], e una ragazza molto convenzionale. Penso che troverai la felicità” (e un brivido percorre la schiena del lettore…).
Narrato in prima persona dalle due gemelle in un’alternanza di voci, la figura di Cassandra domina la scena, visto che non solo apre e chiude l’opera, ma ne occupa circa i tre quarti. A Judith viene riservato un intermezzo che serve più che altro a far prendere al lettore una boccata d’aria e a fornirgli un punto di vista e una versione dei fatti più saldamente ancorati alla realtà.
Un libro che, nel 1962, dovette fare un certo scalpore visti i temi trattati, scritto con uno stile che regge bene il passare degli anni, aiutato anche dall’ottima (e recentissima) traduzione di Stefano Tummolino. Però, da qui a parlare di “lettura esaltante”, di “genialità della scrittura” e di “magistrale romanzo”, come fa Cameron nella sua postfazione, direi che ce ne corre. Parecchio.
E su questo non ho altro da dire.

#fallabreve: Del perché anche una nubile, talvolta, debba divorziare prima di potersi sposare.
“Cassandra al matrimonio” di Dorothy Baker
Fazi, 2014 (1962)
Traduzione di Stefano Tummolini
pp. 274
€ 16,50