“Gogol’ a Roma” di Tommaso Landolfi

Landolfi è troppo Landolfi per fare il critico letterario. Intendo dire che mi sembra gli manchi la necessaria attitudine a mettersi al servizio dell’opera di cui parla e questo, fatalmente, si riflette in un difetto di profondità delle sue recensioni, almeno di quelle raccolte in questo volume e pubblicate sul Mondo fra il 1953 e il 1958.

Si prenda, ad esempio, la velenosissima recensione del Nostro su L’innominabile, ultimo volume della celeberrima trilogia beckettiana. Immagino che chi non sopporta lo scrittore dublinese l’apprezzerà moltissimo, ma il punto mi sembra un altro e si potrebbe sintetizzare così: un giudizio negativo raramente riuscirà a eguagliare la finezza e la fecondità a cui si può arrivare quando si analizzi un’opera che si apprezza o che, addirittura, si ama. È ovvio che quando a esprimere il proprio disappunto è una penna del livello di Landolfi, il risultato sarà esso stesso inarrivabile ai più. Tuttavia, alla fine, qualunque stroncatura (anche le sue, figuriamoci le mie – si parva licet), mi sembra si riduca a uno sberleffo più o meno stilizzato, da cui spesso emerge più il ghigno di malcelata sufficienza (quando non di sadica soddisfazione) del critico che non un parere motivato sull’opera, la cui rilevanza, quando c’è, andrebbe comunque riconosciuta, al di là del gusto personale. Con questo non voglio assolutamente sminuire l’importanza delle recensioni negative, né affermare che tutte le opere siano degne di considerazione, ma solo ribadire che, ci piaccia o no, l’unico giudice inappellabile del valore letterario di un’opera letteraria è il tempo, e che la storia della critica letteraria è piena di clamorosi abbagli, basti ricordare quello di Gide con Proust. In quell’elenco di cantonate mi permetto di annoverare anche il pezzo landolfiano su Beckett: che questi possa non essergli piaciuto non è in discussione; che Beckett possa essere ridotto a un “acquaio di angosce, vere o false”, sì.

Gli unici testi degni di considerazione mi pare siano appunto quelli in cui Landolfi parla di scrittori che ama, come Cechov, dove riesce a mettersi da parte per far spazio all’oggetto della sua riflessione. Anche in questi casi, tuttavia, non mi pare di aver colto guizzi rilevanti dal punto di vista critico, probabilmente per insormontabili limiti personali. Un’ultima considerazione: un apparato di note con la traduzione delle parti, talora molto lunghe, citate in francese da Landolfi, sarebbe stato apprezzato, anche in considerazione del prezzo non proprio economico del volume.

E su questo non ho altro da dire.

Gogol’ a Roma di Tommaso Landolfi
Adelphi, 2002
pp. 435
La mia valutazione su Goodreads: