Di Dio nessuna notizia – “Forse Esther” di Katja Petrowskaja

Sinossi (dal risvolto di copertina): Si sarà proprio chiamata Esther quella bisnonna che, nella Kiev del 1941, chiese fiduciosa a due soldati tedeschi la strada per Babij Jar, la fossa comune degli ebrei, ricevendone come risposta un distratta rivoltellata? Forse. E dell'intera famiglia, dispersa fra Polonia, Russia e Austria, che cosa ne è stato? Il monolite sovietico conosceva l'avvenire, non la memoria. Per ricostruire quella ramificata genealogia, quel vivace intreccio di culture e di lingue – yiddish, polacco, ucraino, ebraico, russo, tedesco –, Katja Petrowskaja intraprende, sulle tracce degli scomparsi, un intenso viaggio a ritroso nella storia di un Novecento sul quale incombono la stella gialla e quella rossa, e in cui si incrociano i destini di memorabili figure: la babuška Rosa, incantevole logopedista di Varsavia, che salva duecento bambini sopravvissuti all'assedio di Leningrado; il nonno ucraino, prigioniero di guerra a Mauthausen e riemerso da un gulag dopo decenni; il prozio Judas Stern, che spara a un diplomatico tedesco nella Mosca del 1932, e dopo un processo-farsa viene spedito «nel mondo della materia disorganizzata»; il fratello Semën, il rivoluzionario di Odessa, che passando ai bolscevichi cambia in Petrovskij un cognome troppo ebraico… Ma indimenticabili protagonisti sono anche i paesaggi: l'immane pianura russa invasa dai tedeschi e le città della vecchia Europa: Kiev, Mosca, Varsavia, Berlino. E i ghetti, i gulag e i lager nazisti. In questo romanzo vero, vibrante, venato di ironia – il migliore che la letteratura tedesca ci abbia dato dopo Austerlitz di Sebald –, mondi inabissati risorgono vividi, rapinosi, e più che mai contemporanei.

 

Ci sono storie che aspettano decenni prima di trovare una voce che abbia voglia di raccontarle. Storie sepolte in un passato talmente intriso di dolore e sofferenza che la memoria familiare, per difendersi, tiene con cura nascoste, ai margini dell’oblio. Fino a quando si palesano per una parola sfuggita di bocca, un nome evocato per sbaglio, una foto sbiadita che spunta fuori da un album polveroso, e allora pretendono un interprete, un portavoce, uno speleologo che riporti alla luce gli scomparsi, i sommersi: perché a quel punto diventano storie “necessarie”, anzi storie che hanno nella feroce urgenza di questa necessità la loro unica ragion d’essere.
Quella che ci racconta Katja Petrowskaja è una di queste. È una storia fatta di assenze, di vuoti, di tasselli mancanti, di non detto, di pudore, di paura, di violenza. Una storia raccontata con voce densa, quasi vischiosa, evocativa, eppure scabra, a tratti lacerata. È una voce che rifugge lettori distratti e superficiali perché esige tempo, dedizione, concentrazione, empatia. Una voce che l’Autrice (ucraina di origini ebraiche) ha voluto catarticamente parlasse tedesco (“se addirittura io uso il tedesco, allora davvero nulla e nessuno è obliato, e persino le poesie sono permesse e la pace sulla terra”).
“Forse Esther” è la storia di una lotta contro il tempo, perché “non solo le persone erano scomparse, ma non era quasi rimasta traccia della loro esistenza” e i superstiti dell’orrore sono sempre più rari e sempre più fragili e scoloriti i loro ricordi. Una lotta contro la Storia e la sua memoria selettiva, spesso dettata dalla cattiva coscienza dei vincitori, che infligge a troppi e troppe cose una sommaria e frettolosa damnatio memoriae. L’Autrice è perciò costretta a inseguire suggestioni più che tracce, echi più che parole, intuizioni più che prove, alla ricerca di un passato ambiguo ed evasivo (“sabotava le mie aspettative, mi sfuggiva di mano”), su cui non ha “alcun potere”, perché “il passato vive come vuole, riesce solo a non morire”.
E noi, col fiato sospeso e il cuore dolente, la seguiamo in questo viaggio a tratti vorticoso, in cui il caso è protagonista assoluto, dove l’unica redenzione possibile sembra passare attraverso la condivisione del dolore, perché non esistono “estranei quando si tratta di vittime. Ogni essere umano ha qualcuno in questo luogo”, perché ad essere annientati non furono “gli altri, bensì i compagni di scuola, i bambini con cui si giocava in cortile, i vicini di casa, le nonne e gli zii, i vegliardi biblici e i loro nipoti sovietici”. Un viaggio dove, invece, i dieci diversi memoriali di Babij Jar sembrano testimoniare l’opposto, e cioè che non vi è “nessun ricordo condiviso, persino nel commemorare i morti la selezione si autoriproduce” e dove l’elemento più incongruo di tutti sembra essere proprio l’unica, piccola, lapide in yiddish (“quante persone in questa città sanno ancora leggere lo yiddish, oggi?”).
E allora lo sconforto e l’amarezza sembrano prevalere perché se “Caino ha ucciso Abele e Abele non ha avuto figli” allora siamo figli di Caino, e per noi anche l’enormità della Shoah è sopportabile visto che “per l’insopportabile non ci sono parole. Se la parola lo sopporta, questo – allora – è anche sopportabile”.
Di fronte a uno scenario così cupo cosa possiamo fare per salvare l’Abele che è in noi, per non ucciderlo una seconda volta? Esattamente quello che ha fatto la Petrowskaja: ridestare la memoria degli scomparsi e dei sommersi nella loro individualità, nella loro singolarità, a testimoniare “che nella nostra vita non sarà il venerdì santo ad avere l’ultima parola”.
In conclusione: non conosco così profondamente la letteratura tedesca contemporanea per sapere se davvero questo romanzo sia il migliore dopo “Austerlitz”, che considero un capolavoro assoluto. Posso però affermare con certezza che non siamo molto lontani da lì: non siamo affatto lontani.
E su questo non ho altro da dire.

#fallabreve: Quando il passato bussa forte.
“Forse Esther” di Katja Petrowskaja
Adelphi Edizioni 2014
Traduzione di Ada Vigliani
pp. 241
€ 18,00

(Data di prima pubblicazione su ifioridelpeggio.blogspot.it: 12/11/2014)