Con tanto di quel sangue a due passi da casa – “Come fossi solo” di Marco Magini

Un libro andrebbe giudicato per come è scritto e non per l’argomento che tratta. È per questo che nutro una certa diffidenza verso quelle opere che si cimentano con la Storia e i suoi orrori: perché avverto il rischio che il giudizio morale su quella Storia possa almeno in parte influenzare quello sul libro.
Sospendo l’esercizio di questa diffidenza solo per le opere di quegli scrittori che sono stati testimoni diretti o vittime degli avvenimenti narrati, opere per le quali qualsiasi valutazione passa in secondo piano rispetto al valore documentale, quasi memorialistico che rivestono. Eppure anche in questi casi non è difficile distinguere opere riuscite anche da un punto di vista “letterario” (come Se questo è un uomo di Primo Levi o La pioggia nera di Ibuse Masuji), da altre che lo sono molto meno (penso ad esempio all’integrale di Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn).
All’opposto, invece, la diffidenza raggiunge livelli di guardia quando a cimentarsi con le brutalità umane è un autore giovane, magari al suo esordio, come fa Marco Magini nel suo Come fossi solo che racconta il massacro di Srebrenica del 13 luglio del 1995 attraverso la voce di tre personaggi: Dirk, un casco blu olandese, Dražen Erdemović, un soldato serbo mezzosangue e Romeo González, un giudice del tribunale penale internazionale.
Una scelta assolutamente temeraria, visto che agli elementi di criticità di cui ho parlato, si aggiunge quello di affrontare avvenimenti che sono ancora una ferita aperta nella memoria collettiva, come dimostra il recentissimo pronunciamento del Tribunale de L’Aja sulle responsabilità del contingente ONU olandese. Narrare una storia così vicina nel tempo rischia infatti a mio avviso di suscitare nel lettore un approccio estremamente emotivo, con una ulteriore distorsione del giudizio.
Dopo aver letto il libro era giustificata tanta diffidenza? Solo in parte. Ho apprezzato il tono sobrio, quasi secco, con cui l’Autore si è accostato a una storia così cruda e violenta, senza cedere né alla tentazione di un vojeurismo dell’orrore né, di converso, a un facile sentimentalismo moraleggiante. Mi pare azzeccato anche l’utilizzo della prima persona nei capitoli dei due soldati e di una più asettica terza persona in quelli del giudice, quasi a marcare anche linguisticamente l’enorme differenza fra chi la guerra l’ha vissuta sulla propria pelle e chi invece la legge solo sulle carte. Eppure è al giudice che Magini assegna un ruolo fondamentale, quasi di voce della coscienza di quell’Europa che si dimostrò incapace di impedire un massacro annunciato: “quando qualcosa dovrebbe interessare tutti finisce per non interessare a nessuno”. Anche sul ruolo dei tribunali chiamati a giudicare su crimini di portata tale da rimettere in discussione la stessa idea di umanità González esprime un punto di vista disincantato e cinico a un tempo. Sa che “…i giudici non hanno in testa la stessa cosa quando parlano di giustizia”, che “…la storia ufficiale di quel conflitto era già stata scritta altrove e loro erano stati messi lì soltanto per prenderne atto, per apporre un sigillo di ceralacca” e che “l’unica ambizione cui una corte può aspirare è quella di riportare ordine”. È sempre lui a emettere la sentenza finale su tutta la vicenda quando dice che “a Srebrenica l’unico modo per restare innocenti era morire”.
Eppure, nel momento in cui rivela che il suo verdetto di condanna nei confronti di Dražen, è stato motivato semplicemente dal non volerla dar vinta alla “spocchia” del giudice francese Prunon, la voce di González diviene stonata e fastidiosamente ambigua.
D’altronde l’ambiguità è la cifra che accomuna anche Dirk e Dražen, ambiguità dettata certamente dalla paura e dall’istinto di sopravvivenza ma non per questo eticamente meno censurabile. Il primo, pur di fronte ai segnali sempre più evidenti della tragedia incombente si limita ad obbedire ciecamente ad ordini che appaiono vieppiù incoerenti e assurdi (“noi non ci facciamo più domande e continuiamo a eseguire ordini, sfilando per questo carnevale in tuta blu”), arrivando a fingere di non sentire le urla delle donne violentate appena fuori dal recinto del campo ONU.
Dal canto suo Dražen, finché ha potuto, ha vissuto quella guerra limitandosi a svolgere i “compiti ben determinati” che gli venivano assegnati ripetendoli “in maniera sistematica e metodica” ed eliminando così “ogni connessione causa-effetto”: “non sono io a premere il grilletto e questo mi basta per dormire la notte”. È quando la guerra lo raggiunge e diventa qualcosa di molto diverso dall’ascoltare “i racconti di chi era partito” che deve fare i conti con la propria meschinità. Perché tutte le volte che si trova di fronte a una scelta, non fa mai quella che “sa” essere quella giusta. Così partecipa allo stupro di gruppo di una donna quando questa è praticamente un cadavere, e quando cerca di ribellarsi al plotone di esecuzione e deve scegliere fra uccidere ed essere ucciso, il suo embrione di beau geste viene subito abortito al pensiero della moglie e della figlia (insomma il classico “tengo famiglia”). Ora, nessuno pretende l’eroismo a tutti i costi, però passare da eroe a codardo nei pochi metri che separano la fila degli assassini da quella delle vittime, non contribuisce all’empatia nei confronti del personaggio. E anche la sua decisione di confessare ai giudici il proprio ruolo attivo nel massacro più che a un pentimento, sembra legato alla necessità di esternalizzare-esorcizzare i propri demoni per poter ricominciare a vivere.
Comunque, pur con diversi difetti, il giudizio finale su “Come fossi solo” è sostanzialmente positivo e penso che Magini sia uno scrittore che meriti una seconda occasione.
E su questo non ho altro da dire.

#fallabreve: Homo homini lupus
“Come fossi solo” di Marco Magini
Giunti Editore 2014
pp. 216
€ 14,00

(Data di prima pubblicazione su ifioridelpeggio.blogspot.it: 04/09/2014)