Carneade

C’è stato un periodo in cui le scelte dell’Accademia di Svezia mi irritavano profondamente, vista la fermezza con cui, ad esempio, ha deciso di non insignire col Nobel un gigante come Philip Roth per assegnarlo a scrittori e scrittrici la cui fama è durata il tempo di cercarne il profilo su Wikipedia o di leggerne qualche titolo stampato in fretta e furia per rimediare alla totale irrilevanza editoriale del Carneade di turno (e taccio sull’ignominia del cantautore cafone).

Per questo, anche se non è il massimo dell’eleganza autocitarsi, riposto oggi l’inizio di una recensione che ho pubblicato per la prima volta nel lontano marzo del 2014, solo per sottolineare con un ironico sberleffo che ormai la pervicace volontà scandinava di sorprendere, non sorprende più nessuno.

Come ormai accade da molto tempo, e dopo una lunga serie di solenni fregature, non penso che leggerò nulla del neo-laureato. Non è escluso che possa sbagliarmi, e nel caso sono pronto a riconoscere l’errore, ma non ho più voglia di perdere tempo per trasformare i miei pregiudizi in giudizi.

Innanzitutto voglio dichiarare che ritengo Philip Roth uno dei massimi scrittori viventi, autore di alcune opere di clamorosa bellezza (tra le ultime cito quel piccolo gioiello che è “Indignazione”) e capace anche nei romanzi meno riusciti di una pagina o di una frase che da sole valgono l’intera opera di molti scribacchini in circolazione (darei non so cosa per scrivere una pagina bella quanto l’ultima di “Ho sposato un comunista”). 
In secondo luogo considero un titolo di merito il fatto che l’Accademia di Svezia si rifiuti pervicacemente di assegnargli il Nobel per la letteratura. È infatti ormai evidente che il valore letterario dei prescelti sia (quasi sempre) un fattore trascurabile. Basti vedere i due nomi in ballottaggio per il prossimo anno. Il primo è Paulo Dos Caminhas poeta degli indios Nambiquara che nella foresta pluviale amazzonica utilizza liane e cortecce di mangrovia per comporre versi onomatopeici che poi appende in mezzo agli alberi. Considerato un idiota dai compagni di tribù, ha colpito gli accademici svedesi per la “capacità di descrivere con stile simbiotico la profonda risonanza fra significante e significato”. Il secondo è lo scrittore beduino Bekim Gais-Mejeh noto per le sue opere scritte sulla sabbia. In realtà, visto che abita in una zona piuttosto ventosa del Wadi Rum, sono quarant’anni che inizia lo stesso libro ma non è mai riuscito ad andare oltre la prime tre lettere. Secondo gli accademici, tuttavia, è proprio questa “capacità archetipica di rendere appieno la fugacità e l’insensatezza dell’umano agire”, a rendere la sua opera degna del Nobel. Capirete come di fronte a cotanta concorrenza uno scrittore capace solo di raccontare meravigliosamente delle storie non abbia speranza alcuna.