Solo il mimo canta al limitare del bosco di Walter Tevis
In genere non apprezzo i romanzi di fantascienza e quelli distopici. Il problema, il mio almeno, non sta tanto nella sospensione dell’incredulità, evidentemente indispensabile quando si affrontino testi di questo tipo, quanto piuttosto nella noia che provo quando, probabilmente con l’intento di rendere più plausibile la narrazione, l’Autore di turno inizia a descrivere nel dettaglio il modo in cui questi mondi futuri e cupi funzionano. Questo, oltre a rendere macchinoso il racconto, spesso e volentieri conduce ad aporie o a buchi nella trama più meno palesi, che trovo particolarmente fastidiosi. Pochi scrittori riescono a evitare questa deriva (penso ad esempio allo splendido La strada di Cormac McCarthy), e Tevis, almeno con questo libro, non sembra rientrare in quel novero.
Confesso che l’inizio mi aveva illuso, con quel tono pacato e tranquillo con cui sembra invitarci a partecipare a una sorta di visita guidata a un enorme obitorio a cielo aperto. Ben presto, però, cade nel tranello di cui sopra, sacrificando sull’altare degli stilemi del genere quella particolare intensità psicologica che mi aveva catturato.
Comunque un libro godibile e, a suo modo, interessante.
Solo il mimo canta al limitare del bosco di Walter Tevis |
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L’uccello dipinto di Jerzy Kosinski
Nella prefazione, la parte più interessante del libro, Kosinski dichiara che con quest’opera voleva “presentare la vita come veniva realmente vissuta” nell’est europeo invaso dai nazisti. Se è così, ha indubbiamente raggiunto lo scopo, perché quanto scrive è sicuramente accaduto, anzi ne è forse solo una pallida approssimazione.
A mio avviso, però, la letteratura dovrebbe fare qualcosa in più, andando oltre la cronaca quasi giornalistica di una serie di violenze e atrocità. Ed è qui che sta il principale limite dell’opera. Temo infatti che Kosinski sia rimasto un mero “cronista del disastro che aveva colpito” la sua gente e la sua generazione, senza riuscire a diventare il “narratore” che aspirava a essere. Anche la voce narrante scelta, il se stesso bambino dai sei agli undici anni, è così fredda da apparire francamente implausibile, non riuscendo a suscitare nel lettore alcuna reazione empatica, se non la viscerale repulsione che segue la descrizione, quasi morbosa, di episodi davvero orrendi.
Alla fine, insomma, mi sembra che il suo intento programmatico di creare una scrittura in grado di esprimere quel “«nuovo linguaggio» della brutalità e il suo conseguente contro linguaggio di angoscia e disperazione”, sia stato raggiunto solo in parte.
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#fallabreve: Un uccello dipinto da Hieronymous Bosch. |
Preparativi per la prossima vita di Atticus Lish
Noioso, prolisso, macchinoso, del tutto privo di qualsiasi tensione narrativa. Una prosa grigia, deprimente, che non ha mai un sussulto di intensità o di originalità, che impiega decine e decine di pagine per descrivere dettagli, situazioni irrilevanti e personaggi piatti e prevedibili verso i quali non si prova alcun coinvolgimento. Anche l’ambientazione della storia non va oltre la scontata e oleografica rappresentazione dell’emarginazione sociale e del degrado urbano.
È piuttosto ironico che l’Autore sia figlio di quel Lish che tagliò impietosamente i racconti di Carver: sarebbe divertente sapere se avrebbe salvato qualcosa di questo insulso polpettone.
#fallabreve: In attesa che finisca di prepararsi leggete altro. |
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Lasciar andare di Philip Roth
È il primo romanzo del Nostro, scritto a 29 anni, e penso che sia anche il suo più lungo: davvero fuori misura. Tante, forse troppe, cose da dire per uno scrittore ancora acerbo sia nella tecnica che nello stile. Il risultato è un’opera disordinata e disomogenea, anche se presenta già alcuni dei temi che si riveleranno ricorrenti nei suoi futuri romanzi, su tutti i rapporti di coppia malati, basati sulla reciproca dipendenza psicologica.
Sprazzi dell’immenso talento di Roth si trovano soprattutto nei dialoghi, davvero brillanti, ma questo non basta a compensare i difetti strutturali del romanzo.
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#fallabreve: Prendetelo alla lettera. |
L’uomo dal vestito grigio di Sloan Wilson
Francamente da un romanzo considerato una denuncia del conformismo americano e riportato alla ribalta da Jonathan Franzen, che gli dedica una entusiastica introduzione, mi aspettavo di più. Ho invece trovato una scrittura piatta, personaggi scialbi e una trama abbastanza inconsistente, che solo negli ultimi capitoli acquista un po’ di vivacità.
Un libro gradevole, comunque, che però si legge con la stessa facilità con cui si dimentica.
L’uomo dal vestito grigio di Sloan Wilson |
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Foto di famiglia di Sue Miller
Una storia molto americana: l’aspirazione a una impossibile perfezione, l’incapacità di superare le difficoltà, fiumi di alcol e, sullo sfondo, dosi generose di perbenismo e puritanesimo.
Mi sembra che la prima parte soffra di una eccessiva prolissità cui, purtroppo, non si accompagna un sufficiente approfondimento dei personaggi, troppo schematici nel loro sviluppo. Anche gli avvenimenti più drammatici sono raccontati con distacco, finendo con l’apparire quasi slegati dal contesto, come a volerne sterilizzare ogni potenzialità narrativa.
In sintesi un romanzo piuttosto noioso.
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Foto di famiglia di Sue Miller |
Il dilemma dell’onnivoro di Michael Pollan
In quest’opera, che sta a metà fra il saggio e l’inchiesta giornalistica, Pollan indaga le “tre principali catene alimentari che nutrono oggi gli esseri umani: quella industriale, quella biologica (o organica) e quella tradizionale che fa capo alla caccia e alla raccolta”. Se il racconto delle prime due risulta interessante e, per certi versi, sorprendente se non francamente inquietante, l’ultima parte, che descrive la preparazione di quello che viene definito il “Ringraziamento dell’Onnivoro”, è francamente noiosa e, come riconosce lo stesso Pollan, assolutamente irrealistica. Comunque apprezzabile nel complesso.
E su questo non ho altro da dire.
Il dilemma dell’onnivoro Michael Pollan |
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