Breviter 2020 #03 – Recensioni (e stroncature) intramuscolari

L’arte di collezionare mosche di Fredrik Sjöberg

Col tono svagato di un amico brillante e un po’ strambo, Sjöberg ci racconta della sua passione verso i sirfidi, una classe di insetti che popola l’isola dell’arcipelago svedese dove l’autore ha deciso di andare a vivere proprio per tentare di classificarli tutti, pur coltivando la segreta speranza di non riuscirci mai, perché “una collezione completa è la più triste di tutte le collezioni”.

Per farlo sceglie di cogliere tutte le suggestioni e le deviazioni che il suo pensare errabondo gli suggerisce, proprio come un sirfide vola da un fiore all’altro per pura necessità. È un itinerario guidato da una gioiosa serendipità, dove l’unica cosa certa è “il semplice fatto che il sapere dà piacere”, che “le lacune crescono al ritmo del sapere” e che quello che si trova “alla fine non era quello che” si stava “cercando all’inizio”. La sua stessa specializzazione nell’ambito della entomologia, d’altronde, rientra nella cosiddetta “bottonologia”, ovvero “la scienza del futile”, ma questo non è un problema visto che “l’essenziale resta una questione di gusto”.

Col procedere della lettura, tuttavia, questa architettura così sgangheratamente incantata inizia a traballare, specie quando prendono il sopravvento la biografia di René Malaise e le sorti della sua collezione d’arte. Insomma un libro gradevole, che mescola generi differenti, ma che a un certo punto perde quel tocco d’originale e affascinante leggerezza, col risultato di indurre nel lettore una certa qual stanchezza.

#fallabreveSiamo tutti i bottonologi di qualcosa.
L’arte di collezionare mosche di Fredrik Sjöberg
Titolo originale: Flugfällan
Iperborea, 2015 (2004)
Traduzione di Fulvio Ferrari
pp. 224
La mia valutazione su Goodreads:

 

Anime baltiche Il giardino dei cosacchi di Jan Brokken

Il limite principale di Brokken mi sembra consista nella mancanza di senso della misura, probabilmente un difetto collegato a una discreta megalomania che si traduce in un innamoramento del raccontare in sé, indipendentemente da ragioni legate all’equilibrio strutturale, all’oggetto del narrare e, ovviamente, all’efficacia narrativa: non arriva allo stucchevole narcisismo di Carrére, ma ci si avvicina parecchio.

La tecnica con cui costruisce i suoi libri è sempre la stessa: un continuo saltabeccare da un personaggio a un altro (non sempre con nessi intelligibili), da un dettaglio a un altro, con lunghissime incidentali narrative che si aprono e si chiudono all’improvviso per riprendere il filo del discorso precedente. Tecnica che, alla lunga, risulta dispersiva per diventare poi, complice la lunghezza dei suoi libri, mediamente superiore alle quattrocento pagine, francamente spossante.

Non nego che talvolta il racconto sia intrigante, ma risente molto, troppo direi, dell’argomento e del protagonista scelti di volta in volta. Nel caso del suo libro su Egorov, che mi era piaciuto abbastanza (anche se già allora avevo sottolineato “qualche lungaggine di troppo”), a giovargli fu sicuramente la scelta di una storia già potente di suo, che non richiedeva una penna particolarmente dotata per essere raccontata.

In Anime Baltiche, invece, i (pochi) pregi dell’Autore sono affatto annichiliti dai (molti) difetti. L’unico vantaggio è che la dimensione corale dell’opera rende la noia alternante, pur senza alleviare in maniera apprezzabile la spossatezza cui accennavo. Non voglio dire che tutte le storie contenute nel libro siano noiose o mal scritte: capita di imbattersi in personaggi o vicende interessanti, ma non in numero sufficiente a farlo uscire dal limbo delle opere irrilevanti.

I limiti della scrittura di Brokken emergono se possibile in modo ancor più evidente ne Il giardino dei cosacchi, un libro davvero noiosissimo che, con il pretesto di raccontare il periodo del confino siberiano di Dostoevskij, lo riduce a un ometto piuttosto insulso e piagnucoloso, relegato sullo sfondo delle vicende della voce narrante, tal Alexander Igorovič von Wrangel zu Ludenhof, un carneade russo alla ricerca del successo nel mondo della diplomazia, vicende ricostruite sulla base del suo epistolario.

È un’opera che rimane a mezza strada fra il romanzo storico e la biografia romanzata, ma la cui la fonte documentale, rappresentata appunto dall’epistolario, è evidentemente priva delle potenzialità narrative sufficienti a reggere un tomo di quasi cinquecento pagine. Si potrebbe obiettare che non si può pretendere da un romanzo il rigore filologico di un saggio storico, ma è proprio questo il principale limite del libro: non appassiona come romanzo e non convince come saggio.

Se avessi fatto la mia conoscenza di Brokken con uno di questi due romanzi, non penso che sarei arrivato a leggere Nella casa del pianista, che continuo a ritenere un buon libro. Temo, tuttavia, che il piacere che ho tratto da quella lettura, non compensi affatto il tempo che ho sprecato con queste due.

Anime baltiche di Jan Brokken
Titolo originale: Baltische zielen
Iperborea, 2014 (2010)
Traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo
pp. 480
La mia valutazione su Goodreads:

 

#fallabreve: Dagli amici di Dostoevskij mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io.
Il giardino dei cosacchi di Jan Brokken
Titolo originale: De Kozakkentuin
Iperborea, 2016 (2015)
Traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo
pp.420
La mia valutazione su Goodreads:

 

Luce d’estate ed è subito notte di Jón Kalman Stefánsson

Pur se ambientata nella fine degli anni Novanta del secolo scorso, la storia è raccontata con una voce fuori dal tempo, quasi ieratica, spoglia di emotività ma non di compassione, specie quando parla di morte, di malattia e delle debolezze degli uomini, sia fisiche che morali. Peccato che, alla lunga, si avverta che sotto questa patina poetica non ci sia molto altro, che manchino sostanza e profondità. I personaggi assumono sempre più caratteri bozzettistici e, nonostante la loro numerosità, la narrazione non diventa mai corale, ma soltanto plurale.

Non nego che Stefánsson riesca a mantenere una certa gradevolezza d’insieme, ma siamo molto lontani dall’intensità narrativa ed emotiva che tanto avevo apprezzato nella cosiddetta Trilogia del ragazzo.

Luce d’estate ed è subito notte di Jón Kalman Stefánsson
Titolo originale: Sumarljós, og svo kemur nóttin
Iperborea, 2013 (2005)
Traduzione di Silvia Cosimini
pp. 304
La mia valutazione su Goodreads:

 

L’anno della lepre Il figlio del dio del tuono di Arto Paasilinna

Il primo romanzo racconta una storia piuttosto inverosimile e vagamente edificante, quasi un apologo. L’intento di denuncia della insensatezza del modello di vita occidentale è evidente, ma viene condotto con una ingenuità e una schematicità davvero eccessive, e la fuga dalla civiltà di Vatanen si sviluppa attraverso una serie di episodi abbastanza scollegati fra loro e piuttosto improbabili.

Anche ne Il figlio del dio del Tuono troviamo la stessa scrittura di elementare schematicità e un intreccio inverosimile che però, almeno, richiede sin dal titolo al lettore di sospendere l’incredulità. Stavolta  Paasilinna immagina che le divinità nordiche, preoccupate per le sorti del proprio popolo, ormai immemore della fede dei padri, mandino sulla terra il figlio del dio del Tuono per rimettere a posto le cose.

Che dire: evidentemente l’umorismo da circolo polare artico non fa per me, visto che non c’è stata una sola pagina che mi abbia strappato anche l’ombra di un sorriso: non dispero però che, dopo un paio di pinte di birra, il mio giudizio potrebbe essere più benevolo.

Come Paasilinna possa essere considerato uno scrittore di culto da lettori adulti rappresenta, per me, un vero mistero.

#fallabreve: Scappo dalla città. La vita, l’amore e la lepre (semicit.).
L’anno della lepre di Arto Paasilinna
Titolo originale: Jäniksen vuosi
Iperborea, 1994 (1975)
Traduzione di Ernesto Boella
pp. 204
La mia valutazione su Goodreads:

#fallabreve: Il Walhalla può attendere (semicit.).
Il figlio del dio del Tuono di Arto Paasilinna
Titolo originale: Ukkosenjumalan poika
Iperborea, 1998 (1984)
Traduzione di Ernesto Boella
pp. 288
La mia valutazione su Goodreads:

 

Tumbas di Cees Nooteboom

Si tratta dell’itinerario, invero piuttosto disordinato, di un viaggio sentimentale di cui non sempre si riesce a cogliere il senso. Alcuni omaggi sono profondi e toccanti, altri sono di notarile secchezza, altri ancora mera riproposizione di citazioni dell’autore commemorato. Una maggiore sintesi e, soprattutto, una più efficace connessione fra i diversi capitoli, avrebbe decisamente giovato all’equilibrio complessivo. Un’ultima considerazione riguarda la qualità del materiale fotografico che, in un libro del genere, dovrebbe essere molto migliore.

In estrema sintesi: idea interessante, sviluppo non all’altezza.

E su questo non ho altro da dire.

Tumbas di Cees Nooteboom
Titolo originale: Tumbas. Graven van dichters en denkers
Iperborea, 2015 (2007)
Traduzione di Fulvio Ferrari
pp. 377
La mia valutazione su Goodreads: