La cartella del professore di Hiromi Kawakami
Tsukiko è una donna di trentasette anni che, “per natura”, non “mostra le sue emozioni”. Questo le impedisce di avere una vita sentimentalmente soddisfacente, ma non sembra lamentarsene troppo: “se era una cosa tanto complicata, l’amore, non sapevo cosa farmene”.
Una sera entra in una nomi-ya (una specie di tavola calda) e prende posto a fianco di un uomo che si rivela il suo insegnante di giapponese al liceo. Da qui inizia un rapporto che inizialmente si nutre di incontri casuali e di bevute e che si basa su una forte affinità: “tra noi ci sono almeno trent’anni di differenza, ma mi sento più in sintonia con lui che con gli amici della mia età”.
Ben presto Tsukiko inizia a nutrire nei confronti di quell’uomo emozioni sconosciute e che la mettono a disagio. Come sua abitudine, cerca di recuperare la sua confortevole solitudine, ma qualcosa è cambiato e capisce che quella col professore è diventata un’amicizia esclusiva: “sono mesi che trascorro le mie serate, esco e faccio passeggiate in compagnia del professore, mai di qualcun altro”.
Quando si ritrova a provare “gelosia o qualcosa che ci assomiglia molto” nei confronti delle amicizie femminili del professore, capisce che gli schemi e gli equilibri che in qualche modo aveva costruito e dietro i quali si era nascosta per vivere senza troppe complicazioni, sono ormai andati in frantumi: è innamorata di quell’uomo.
Con una scrittura precisa e attenta a evitare qualsiasi sbavatura sentimentalistica, la Kawakami ci racconta l’incontro di due solitudini che sembravano sufficientemente strutturate da bastare a se stesse, e che invece diventano il centro gravitazionale di un amore che trae nutrimento proprio dalla sua consapevole anomalia: “una relazione delicata. Delicata, durevole, e priva di particolari aspettative. Ormai è deciso così”.
Davvero un bel libro.
#fallabreve: Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce (cit.) |
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Il supplizio del legno di sandalo di Mo Yan
Un romanzo maestoso, costruito con maestria incastrando fra loro due linee temporali e alternando le voci dei diversi personaggi.
La vera protagonista della storia, però, è la Cina, con i suoi estremi e le sue contraddizioni: una sorta di inesorabile Leviatano per il quale la vita di un uomo conta meno di nulla, e che trasforma tutto in un simbolo per il tramite del filtro estetizzante della tradizione: dalla bellezza più raffinata al crudo orrore di un supplizio disumano.
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#fallabreve: ‘Sto drago po’ esse’ legno e po’ esse’ piuma (semicit.). |
Vendetta di Yoko Ogawa
Una raccolta di “undici racconti di lutto”, come li definisce l’Autrice nella postfazione, narrati in prima persona e quasi del tutto privi di qualsiasi indicazione che possa legarli in qualche modo al Giappone (cosa non comune nella letteratura del sol levante).
Sono racconti assolutamente indipendenti e autoconclusivi, ma in qualche modo legati da una serie di rimandi interni, che danno alla raccolta un tocco di originalità e di innegabile eleganza formale, e la cui ricerca diventa ben presto una sorta di sfida per il lettore: una torta di fragole, una telefonata, un pianto improvviso, una nevicata fuori stagione o un dichiarato gioco meta letterario.
Improvvisamente, però, in una narrazione apparentemente improntata al più convenzionale realismo, il lettore viene spiazzato dalla comparsa di un elemento violento o oscuramente inspiegabile, che sposta la narrazione su un piano alternativo. E proprio qui sta, a mio avviso, il difetto di questa raccolta, perché questo viraggio, specie quando utilizza registri quasi horror, richiede al lettore una subitanea, e non sempre agevole, sospensione dell’incredulità.
#fallabreve: Undici gradi di separazione. |
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Bellezza e tristezza di Yasunari Kawabata
Un Kawabata minore, mi sembra. La storia dell’amore mai davvero finito fra Oki e la pittrice Otoko e della folle e morbosa sete di vendetta della sua assistente Keiko nei confronti dell’uomo (leggete il libro se volete saperne di più), è appesantita da lunghe e ripetute divagazioni che, lungi dal creare un climax di angoscia e tensione, risultano solo faticose per il lettore quando non del tutto superflue.
Ma il vero limite del romanzo sta, a mio avviso, nel fatto che Kawabata mi sembra troppo attento al punto di vista del protagonista maschile, un personaggio davvero egoista e abbietto, che descrive con uno sguardo, se non proprio benevolo, quantomeno assolutorio, mentre relega le voci femminili in un universo indistinto di sottomissione e di nevrosi.
Anche il finale è deludente: invece di percorrere il sentiero, a mio avviso narrativamente più fecondo, della vendetta compiuta solo con gli strumenti della seduzione e della violenza psicologica, l’Autore sceglie un finale quasi da tragedia greca, in cui sono i figli a pagare per le colpe dei padri.
E su questo non ho altro da dire.
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#fallabreve: Kiken na Kankei (Le relazioni pericolose). |