“Improvviso il Novecento” di Giordano Meacci

Sinossi (dalle note di copertina): “Mi alzo alle sette, vado a Ciampino (dove ho finalmente un posto di insegnante, a 20.000 lire al mese), lavoro come un cane (ho la mania della pedagogia), torno alle 15, mangio, e poi…”. È il 1952, e Pier Paolo Pasolini può dedicarsi alla letteratura solo “poi”, nel tempo libero dall’insegnamento. Attorno agli anni ciampinesi di Pasolini e ai ricordi dei suoi alunni e dei suoi amici (Bertolucci, Cerami, Pivano) – quei primi anni Cinquanta in cui nasceva Ragazzi di vita – Meacci costruisce un libro che è al contempo saggio, reportage, diario di viaggio e racconto, e in cui trova posto un’intera teoria di figure del nostro Novecento (e non solo): Totò, Fellini, Hemingway, gli sfollati del dopoguerra, Mizoguchi, il Vangelo, Mantegna, le tradizioni contadine, Simone Martini, il comunismo, Anna Magnani, Goldrake e Happy Days, l’America, Roma, il terremoto del Friuli, la grande poesia, la “scomparsa delle lucciole”.

Questo libro è un atto d’amore nei confronti della cultura, anzi direi, più precisamente, nei confronti dell’amore per la cultura. Per raccontare il suo viaggio “verso Pier Paolo Pasolini e l’Italia degli anni Cinquanta”, Meacci sceglie di “unire al rigore ricostruttivo la necessità dell’improvvisazione, approfittando delle suggestioni” che gli arrivavano “in corso d’opera” dai vari incontri, per creare collegamenti con il suo “percorso privato attra6531738verso il Novecento” e con il suo Pasolini, quello che aveva scoperto durante la propria “vicenda formativa”. È per questo che il libro, pur concentrandosi sugli anni in cui Pasolini insegnò lettere nella scuola media privata Francesco Petrarca di Ciampino (“dal dicembre 1951 alla fine del 1954”), in realtà risuona di echi che arrivano fino ai nostri giorni. Grazie a una sorta di consapevole serendipità, se mi si concede l’ossimoro, l’Autore ci fa entrare in un mondo incantato, pieno di contaminazioni, in cui non esiste l’alto o il basso, ma solo punti di contatto, “legami tra le cose”, le parole e le immagini, che riescono a mettere in comunicazione piani ideali e narrativi non necessariamente contigui, né nello spazio, né nel tempo. È lo stesso Meacci, d’altronde, a definire il libro un “diario di viaggio che va dal febbraio al novembre del 1997”. Normale quindi che, come in tutti i diari, la sistematizzazione del materiale raccolto non sia l’obiettivo principale, senza tuttavia per questo sconfinare nella frammentarietà e nell’incoerenza. Il suo talento si evidenzia proprio nella capacità di tracciare il ritratto di Pasolini professore attraverso la composizione di un tessuto emotivo, visivo, sensoriale fatto di molte e diverse voci, ognuna delle quali è valorizzata sia individualmente che per il suo contributo al disegno complessivo. E si intuisce l’impegno che deve essere costato all’Autore questo processo di inclusione, questa “passeggiata tra vite che si intrecciano”: impegno ripagato ampiamente dalla ricchezza e dalla vividezza dell’opera, distante dal genere biografico classico, spesso troppo concentrato sulla ricostruzione esatta, ma pedante, di una vita.

Un’operazione così complessa è possibile, so di ripetermi, proprio in virtù di una visione della cultura e, quindi, della vita, che non conosce etichette, divisioni, classificazioni, ma è aperta a tutto e a tutti: è questo l’unico modo, d’altronde, che consente di trovare meravigliose analogie fra uomini e argomenti apparentemente (e altrimenti) irriducibili. Nel libro, scritto quindici anni fa, quando l’autore era alle soglie dei trent’anni, e volutamente ripubblicato senza alcuna correzione o integrazione da parte sua (a parte una nuova introduzione, di folgorante bellezza), si apprezzano un mondo interiore lussureggiante e costruito, immagino, con fatica, pazienza e amore, e uno sguardo affettuoso e attento, che riesce a trasfigurare la realtà su cui si posa, scoprendone la poesia anche fra le quinte più nascoste, senza per questo risultare forzato o artificioso.

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Giordano Meacci

In mezzo a tutto questo, anzi, prima, durante e dopo tutto questo, c’è Pasolini. Una figura che appartiene alla categoria dei “vicoli ciechi: il cui insegnamento può essere colto solamente nel gesto di libertà creativa che fanno. Nel metodo libero con cui agiscono”. Impossibile sia da seguitare che da seguire “nei contenuti, nelle scelte del racconto da fare”, a meno di auto-condannarsi “all’epigonia”. Da prendere a modello solo per la straordinaria possibilità che dà “di mettersi alla prova e di rischiare giocando con i propri limiti per vedere quali sonoe se ci sono – i limiti”. Pasolini che, per necessità, lavorava in una scuola in cui riteneva si insegnassero “delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori”, una scuola che sarebbe stato meglio abolire “in attesa di tempi migliori; cioè di un altro sviluppo”. E che pure ha lasciato un ricordo indelebile nei suoi alunni di allora (particolarmente intensa la testimonianza di Vincenzo Cerami, “nella sua doppia dimensione di scrittore e di ex alunno”, e le sue riflessioni sulla letteratura, sul rapporto fra invenzione e verità, fra la parola e il silenzio), anche al netto di una inevitabile dissolvenza fra l’immagine del professore e quella conosciuta “sui giornali, alla televisione”. Perché con i suoi modi miti ed educati, riuscì a ribaltare i principi pedagogici dell’epoca (solo dell’epoca?), facendo leva sulla curiosità dei suoi ragazzi: “l’unico istinto di cui l’educatore può debitamente usufruire”; considerando “quello che sapevano, non quello che non sapevano”, ma senza rincorrere una semplicità artefatta, anzi sfidandoli a fare cose difficili, perché: “col ragazzo bisognerebbe […] essere difficili […] in quanto ciò che egli ricerca non è nel suo mondo”. Un metodo maieutico, letteralmente: “ci ha fatto nascere, ci ha fatto capire”.

Una voce dolce e carezzevole quella di Meacci, che è riuscita a dare “sostanzialmente forma” agli ologrammi che abitano la memoria dei testimoni, dei reduci, dei sopravvissuti, di un Novecento che, alla luce di questi nostri tempi così miseri e malandati, sembra molto più lontano di quanto in realtà sia.

E su questo non ho altro da dire.

#fallabreve: Scrissi d’arte, scrissi d’amore.
“Improvviso il Novecento” di Giordano Meacci
Minimum Fax, 1999, 2015
pp. 442
€ 15,00