“’14” di Jean Echenoz

“In breve, il 1914 inaugura l’età dei massacri.”
Eric Hobsbawm[1]

 

Sinossi (dalle note di copertina): Quando, il 1° agosto 1914, le campane suonano a martello annunciando la mobilitazione, nemmeno il mite, smarrito Anthime riesce a sottrarsi all’esultanza generale, alle discussioni febbrili, alle risate senza fine sovrastate da inni e fanfare. E poi – lo dice anche Charles con la consueta sicumera – è questione di quindici giorni al più, sarà una guerra lampo. Un ultimo, antinomico sguardo d’addio alla deliziosa Blanche – la giovane che ama ma che Charles ha ovviamente conquistato per primo – e, insieme a lui e agli inseparabili Padioleau, Bossis e Arcenel, eccolo partire da Nantes alla volta dell’ignoto. Ignoto che rimarrà tale per tutti i cinquecento giorni che passerà al fronte, perché per Anthime la guerra non può che essere un evento tenebroso e indecifrabile: anche quando si lancia curvo e goffo contro il nemico, preceduto dalla lama della baionetta che fora l’aria gelida, anche quando apprende della morte di Charles, abbattuto insieme al Farman F 37 sul quale compiva un volo di ricognizione, anche quando vede Bossis inchiodato a un puntello di galleria, anche quando si vomita addosso di paura e di disgusto – anche quando una scheggia di granata, simile a una levigata ascia neolitica, punta su di lui come per regolare una questione personale. D’ora innanzi, la sua vita minuscola sarà diversa – inaspettatamente, sorprendentemente diversa. Con una leggerezza e una concisione che già il titolo evoca come un temerario programma, Echenoz ci mostra la tragedia che ha diviso nettamente in due il secolo scorso ad altezza d’uomo, senza mai varcare l’orizzonte visivo di Anthime, lasciandosi guidare dal suo sguardo candido e attonito, e facendo così di lui l’emblema della sola qualità che consenta di attraversare indenni l’inaudita violenza della Storia: la sorridente, caparbia volontà di adattarsi.

herter départ poilus 1914 via parismyope.blogspot.com
Albert Herter: Le Départ des poilus, août 1914 (1926), Gare de l’Est, Parigi

La Grande Guerra fu il primo esperimento in vivo che consentì agli apprendisti stregoni dell’epoca di testare gli effetti devastanti dell’applicazione in campo bellico “degli strumenti di azione razionale ed efficiente creati dallo sviluppo della modernità”[2]. Una guerra in cui il corpo a corpo venne sostituito dall’artiglieria e dai gas venefici; in cui si dovette creare la figura del milite ignoto per poter onorare simbolicamente ogni povero soldato “asfissiato, carbonizzato, dilaniato dai gas, dai lanciafiamme o dalle granate”, oppure semplicemente divorato dagli animali selvatici o putrefatto: comunque scomparso, letteralmente. Una guerra in cui “la rivalità politica internazionale si modellava sulla crescita e sulla competizione economica[3]”, intrinsecamente illimitate, visto che alle frontiere degli stati sostituivano quelle delle multinazionali, rappresentate dai “limiti estremi del globo, o piuttosto i limiti della loro capacità di espansione[4]”. Una guerra in cui, infine, i civili per la prima volta “diventarono obiettivi diretti e talvolta principali della strategia militare”, e gli avversari furono “demonizzati allo scopo di renderli odiosi o almeno disprezzabili[5]”, esercizio che fu poi tristemente perfezionato dai regimi nazifascisti e che ancora adesso, mutatis mutandis, ha parecchi estimatori.

È questo il teatro su cui viene catapultato Anthime Sèze, e più precisamente sul famigerato fronte occidentale, una linea “di trincee e fortificazioni difensive che subito si estesero senza interruzione dalla costa della Manica nelle Fiandre fino alla frontiera svizzera[6]” e che, in barba alle previsioni di una guerra lampo, rimase pressoché immobile per oltre tre anni: “mentre cercavano ogni giorno di ammazzare il maggior numero di quelli che avevano di fronte e di conquistare il minimo di metri richiesto dal comando a sua discrezione, è stato lì che si sono sepolti”. La vita di trincea si rivela subito affatto diversa dall’illusione di ordine con cui Anthime e i suoi amici erano stati accolti nell’esercito e che gli aveva assegnato la matricola 4221 della “11a squadra della 10a compagnia, che apparteneva in ordine crescente al 93° reggimento di faechenoznteria, 42a brigata, 21a divisione di fanteria e 11° corpo d’armata della 5a armata”. La realtà della guerra non ha nulla di così preciso e definito, di prevedibile, di comprensibile. È un mostro osceno e insaziabile che costringe a respirare l’aria “impestata dai cavalli in decomposizione, dalla putrefazione degli uomini uccisi, […] dall’odore di piscio e di merda e di sudore, di lerciume e di vomito, per non parlare del dilagante effluvio di rancido, di muffa, di vecchio, mentre in fondo sei all’aria aperta, al fronte”. In cui c’è chi prova a fuggire sparandosi a una mano, col rischio, se scoperto, di essere fucilato per tradimento; chi si fucila da sé, “alluce sul grilletto e canna in bocca”; o infine chi, come Arcenel, decide semplicemente di “fare un giro” e finisce davanti al plotone di esecuzione per diserzione. Perché per il poilu “la situazione è semplice, sei in trappola: di fronte a te il nemico, insieme a te topi e pidocchi e, dietro di te, i gendarmi. Non c’è che una soluzione, diventare inabili […], peccato che la cosa non dipenda da te, ecco il problema”. Per Anthime questa opportunità si materializza in una scheggia di granata che gli tronca di netto il braccio destro, consentendogli di tornare a casa e di scampare al massacro di Verdun in cui, tra il febbraio e il luglio del 1916, morì un milione di soldati. Lui, che “non è mai stato il tipo che si lamenta”, che “si adatta sempre”, si adatta anche alla mancanza del braccio, proprio come al fronte si era rapidamente abituato “agli spostamenti, ai cambi di uniforme e soprattutto agli altri”.

Ed è proprio questo, a mio avviso, il tema principale del romanzo: la capacità di adattamento dell’uomo a qualsiasi situazione, per quanto estrema e disumanizzante. La resilienza quasi rassegnata, ma alla fine vincente, di Anthime, sembra quasi fare da contraltare ironico rispetto al destino infausto del fratello Charles, il cui trasferimento in aviazione nella speranza che, in aria, sarebbe stato “al riparo dal fuoco nemico più che sulla terra”, l’aveva portato alla morte “ancor più rapidamente di quel che forse gli sarebbe accaduto nel fango”. Alla fine sembra quasi che l’unica funzione di Charles, che sembrava invece destinato al successo in ogni campo, sia stata quella di creare quel vuoto in cui Anthime fiorirà: prendendone il posto nell’azienda di famiglia (che prospera proprio grazie alle commesse militari), sposando Blanche, che era stata conquistata dal fratello da cui aveva anche avuto una figlia, e mettendo al mondo un maschietto proprio mentre termina l’ultima battaglia del conflitto e a cui, in una sorta di inconsapevole sberleffo, dà il nome di Charles.

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Jean Echenoz

Una scrittura moderna, quasi nervosa, quella di Echenoz che, attraverso l’uso del passato prossimo e dell’imperfetto, sembra voler diminuire la distanza fra gli eventi narrati ed il lettore, e in cui l’assenza delle virgolette nel discorso diretto mi sembra, per una volta, non un irritante vezzo stilistico quanto piuttosto una scelta perfettamente coerente con il suo stile pulito e distaccato. Insomma, un libro davvero bello che dimostra, ove ce ne fosse ancora bisogno, che quando si parla della Storia, la massima ciceroniana sulla “historia magistra vitae” e l’abusata citazione marxiana sul fatto che essa “si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”, siano quantomeno troppo ottimistiche, se non del tutto fallaci. La realtà sembra infatti dimostrare non solo che la Storia non insegna un bel nulla a nessuno, ma che si ripete in continuazione ed ogni volta con un aumento esponenziale della quantità di tragedia. Mi sembra perciò più condivisibile quanto afferma Hobsbawm quando scrive che, dalla Grande Guerra, “l’umanità ha imparato a vivere in un mondo in cui lo sterminio, la tortura e l’esilio di massa sono diventati esperienze quotidiane di cui non ci accorgiamo più[7]”. Inutile sorprendersi, in fondo: l’umanità non è forse fatta da tanti, tantissimi Anthime?

E su questo non ho altro da dire.

 

#fallabreve: Non tutto il male vien per nuocere. Se sopravvivi.
“‘14” di Jean Echenoz
Adelphi, 2014 (2012)
Traduzione di Giorgio Pinotti
pp. 110
€ 14,00 (eBook € 9,99)

 

[1] Eric Hobsbawm, Il secolo breve; BUR: 1997, pag. 36
[2] Zygmunt Bauman – Modernità e Olocausto; Il Mulino: 1992, pag. 15
[3] Eric Hobsbawm, Ibid. pag. 43
[4] Eric Hobsbawm, Ibid. pag. 43
[5] Eric Hobsbawm, Ibid. pag. 66
[6] Eric Hobsbawm, Ibid. pag. 37
[7] Eric Hobsbawm, Ibid. pagg. 68-69